ELIZABETH BERNHARDT, PhD Damon Davis (nato nel 1985 a East St. Louis) è attivamente coinvolto in molte pratiche creative a St. Louis: lavora come artista visivo, musicista e produttore musicale. Ha conseguito un MFA in regia cinematografico, quindi è spesso impegnato nella produzione cinematografica. Damon ha un'eredità mista interessante ed esplora spesso argomenti relativi all'identità americana poiché sua madre era indigena americana e francese nata nella Louisiana e suo padre era afroamericano e faceva parte del gruppo Black Panthers. Damon è cresciuto come cattolico ma allo stesso tempo si è interessato alla cultura créole sovversiva e all’apprendimento di vudù e Yoruba. Damon crea arte composta da una varietà di elementi provenienti da diverse norme culturali, e spesso esplora cosa significhi essere un uomo nero americano. Mette insieme parabole e storie magiche che riflettono le sue esperienze e insegnano la natura umana. È affascinato dalla narrazione attraverso le culture. Nel 2011 Damon ha fondato un collettivo di artisti musicali sperimentali chiamato FarFetched in una città in cui la presenza di musica afroamericana ha creato una forte cultura e identità, grazie a Miles Davis, Chuck Berry, Josephine Baker, Ike e Tina Turner e molti altri. Mentre Damon collabora con talenti musicali locali, ha trovato il tempo per creare i suoi album esplorando temi afrofuturisti come la fantascienza, il misticismo créole e l'alternativa Blackness come nei suoi album Darker Gods e The Holy Mountain. Come produttore musicale è conosciuto come LooseScrewz, ed attivo in luoghi diversi, da PBS a MTV. Tra gli altri progetti, come artista visivo mentre ha partecipato in un programma di residenza presso Grinnell College nel 2019, ha creato busti scultorei realizzati con cristalli su cemento. Sono affascinanti da guardare mentre portano un significato concettuale importante. Riguardano vulnerabilità, mascolinità, dolore e trauma causate da perdita e sofferenza—e quanta responsabilità nella vita un uomo può mettere su se stesso; inoltre il lavoro manifesta sentimenti che riguardano il limite necessario per spezzare un uomo. I pezzi sono rappresentazioni fisiche di tensione mentale e vulnerabilità oltre che di grande forza. Per ulteriori informazioni sulla sua mostra del 2020 al Grinnell College Museum of Art, vede www.heartacheandpaint.com. Per tornare indietro di alcuni anni, Damon ha lavorato attivamente con diversi tipi di espressioni artistiche in risposta a ciò che è accaduto dopo l'uccisione dell'adolescente Michael Brown a Ferguson (agosto 2014). Nelle parole di Damon, "All Hands On Deck [il nome del progetto] ha catturato le forme delle mani delle persone che hanno organizzato e sostenuto il movimento. Queste stampe sono state incollate con la colla di farina su attività commerciali sbarrate di West Florissant, una strada di significativa protesta. Il progetto in sé era una protesta per cambiare lo spazio fisico della strada poiché gli edifici chiusi con assi di legno creavano una narrazione di distruzione prima ancora che fosse accaduto qualsiasi cosa, il che alimentava la rappresentazione parziale dei manifestanti da parte dei media. Era un modo per trasformare l'arte in un'arma per creare una contro-narrativa centrata sull'unità e sull'amore che vedevo ogni volta che uscivo per protestare. Il progetto cercava di sollevare il morale della comunità di protesta per continuare la lunga battaglia.” L'installazione è stata twittata da Banksy come "la più potente arte di strada del mondo" in quel momento ed è stata successivamente riconosciuta come una delle "100 opere d'arte che hanno definito il decennio" dal critico di Artnet Ben Davis. La serie esiste ora come archivio digitale e come un set di litografie. Le opere originali sono conservate nella collezione dello Smithsonian. Damon ha anche realizzato circa 130 piccoli disegni sulle proteste in una serie chiamata Negrophilia su registrazione di immagini di persone che ha visto e parole che ha sentito. Ha sperimentato la cancellazione di parole nei testi come rappresentazione di com'è scritta la storia—sulla base di informazioni limitate e selezionate—e certamente non su un quadro completo o critico più grande come dovrebbe essere in una situazione ideale. Il modo in cui viene creata la storia è un argomento assolutamente affascinante e qualcosa di solito lasciato ai professori di storia in qualche aula o ai pensieri scritti nei libri accademici. Attraverso la sua arte concettuale, Damon mostra letteralmente e visivamente come la storia viene quasi sempre messa insieme e scritta da chi teneva il potere. La sua opera qui è incredibilmente potente poiché Damon ha applicato un pennarello al testo per distorcere il messaggio originale per esplorare come viene prodotto qualche testimonianza e, in definitiva, la “storia". Per un collegamento al testo e alle immagini di questa serie, vede: www.heartacheandpaint.com/Negrophilia. Nel 2017 Damon ha lanciato un altro lavoro, un film documentario che ha co-diretto chiamato Whose Streets, che è stato visto in anteprima al Sundance Film Festival. Damon è stato invitato a fare un TED talk sulla paura, il coraggio, la rabbia e l’amore—che derivano ancora una volta dal lavoro multiforme della comunità che ha svolto a Ferguson. Andando oltre i progetti ispirati a St. Louis, Damon si è recato in Ghana per un programma di residenza con Indelible Arts dove ha scritto, diretto, girato e creato musica per The Stranger (2018). Nelle parole di Damon, “è una storia allegorica che parla del complesso rapporto tra la diaspora e il popolo africano continentale, così come la spaccatura che la schiavitù ha creato e le aspettative di una persona che ritorna in una “patria” che non ha mai visto. Segue uno sconosciuto che cade dal cielo alla ricerca di un castello e una regina che potrebbe non essere esattamente quello che si aspettava.” Il protagonista torna in Africa occidentale per esplorare le origini dei suoi antenati ma allo stesso tempo si sente come un estraneo. Damon spiega pure come alcuni americani possano sentirsi estranei—anche in America—poiché non sono sempre accettati dall'America convenzionale (insomma quella gestita dalla cultura dominante). Lui pensa che questo stato liminale e oneroso renda gli afroamericani in grado di adattarsi a tanti tipi di situazioni di vita.
Uno dei progetti in corso di Damon è intitolato Darker Gods, una favola mitologica afro-surrealista che introduce un universo in cui le persone di colore sono Dei. Spiega: "Sfidando la natura svalutante delle rappresentazioni occidentali della Blackness nei media e nella cultura popolare, la raccolta di opere è realizzata attraverso un'estetica nera affinché la comunità nera possa vedere se stessa in tutta la sua grazia e complessità". Damon ha creato un pantheon di tredici divinità che governano su un universo parallelo e un giardino che funge da porta d'ingresso dove i due mondi si incontrano. A questo incrocio ci sono fantasie di Blackness che ricordano Yoruba e la mitologia greca. Il secondo capitolo di questo epico, Darker Gods at The Lake of Dreams, aprirà alla Betti Ono Gallery di Oakland, in California, a giugno. Damon si dedica molto alla storia americana, a come si è sviluppata l'America e alla difficile situazione degli afroamericani. Il suo lavoro affronta alcuni dei concetti più impegnativi legati ai problemi razziali e ai potenziali cambiamenti. Damon crede fermamente che l'arte abbia il potere di apportare cambiamenti perché l'arte sarà veritiera e perché gli artisti risolvono problemi creativi, proprio come gli scienziati. Crede che il racconto aiuterà a far luce nel mondo per le persone che non si sentono di avere voci nella società. Spiega che sappiamo così tanto delle altre culture attraverso la loro arte e i loro cinema e che questi media hanno il potere di svelare la nostra identità e potenzialmente curare la nostra società. Per ulteriori informazioni, vede: www.pbs.org/wnet/americanmasters/damon-davis-apologue-for-the-darkest-gods/15797/.
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Elizabeth Bernhardt, PhD, intervista Barbara Klein, fondatrice del Film Festival Italiano USA (Italian Film Festival USA) Come anticipato qui sopra, quest’ultimo semestre ho avuto l’opportunità di insegnare in un corso di cinema che tratta film di registe donne e tra questi abbiamo studiato sei film di registe italiane incentrati su tematiche di attualità relative alla vita di donne italiane. Anche a St. Louis abbiamo una donna dietro il nostro mondo di cinema italiano: Barbara Klein. Per il suo lavoro nel campo della promozione della cultura italiana e dell’amicizia tra i nostri due paesi, Barbara è stata nominata dal Presidente della Repubblica Italiana “Cavaliere dell’Ordine della Stella d'Italia” nel 2017. Conosciamola! Come hai avuto l’idea di creare un festival di cinema a St. Louis? Allora nel 2003 sono rientrata dall’Italia. Stavo lavorando come revisore contabile presso KPMG a Milano. Qui a St. Louis ho notato che c’erano poche possibilità di vedere film italiani e allo stesso tempo ho notato anche che c’erano altri festival di cinema italiano negli Stati Uniti. Come hai messo l’idea in piedi? Ho parlato con Lido Cantarutti a San Francisco in California. Mi ha spiegato come ottenere i film dall’Italia e spedirli a St. Louis. È il mio mentore. Quindi nel 2005 ho iniziato il festival a St. Louis poi si è esteso a tredici altre città americane: Boston, Boulder, Chicago, Cleveland. Detroit, Indianapolis, Kansas City, Memphis, Milwaukee, Phoenix, Pittsburgh, Portland e Salt Lake City. Aveva senso espandere il festival in altri luoghi per diversi motivi, ed alla fine è stato più facile estenderlo perché in questo modo tutte le città coinvolte condividono le spese del festival. Poi c’è da dire che siamo tutti volontari, non esistono stipendi dietro questo festival, l’Italian Film Festival USA (IFFUSA). Dove si vedono i film? E chi va a vederli? Le proiezioni sono fatte negli auditorium dei campus universitari della zona metropolitana; e cosi sia i professori che gli studenti di lingua e cultura italiana possono essere coinvolti. In più c’è da dire che i film sono destinati ad un pubblico locale; l’idea è di mettere la gente di St. Louis in contatto con la lingua e la cultura italiana tramite il mondo del cinema italiano contemporaneo. Come scegli i film? Quanti film fanno parte del festival? Dietro le quinte c’è tanto lavoro da fare. Devo guardare tanti film per scegliere quelli che potrebbero essere accolti meglio dal pubblico americano. Appena finisce un festival, inizio a trovare film per l’edizione successiva. L’anno scorso penso di aver visto cento film. Devo vederne molti per trovare quelli giusti. Io e i miei colleghi scegliamo 15-17 film per ogni festival. Nel 2019 c’erano quindici film e poi c’è pure il programma di cortometraggi, curato dal mio collega Piero Erbaggio di Detroit. I film scelti per l’anno 2020 rimarranno in attesa fino a quando non li potremo guardare insieme dal vivo. Quando si svolge il festival? Di solito IFFUSA è in aprile. Nel 2020, per via della pandemia, abbiamo organizzato tre edizioni online per intrattenere e stare in contatto con il pubblico dell’IFFUSA: Shorts at Home, IFFUSA@Home-Spring e IFFUSA@Home-Autumn. E nel febbrario-marzo del 2021 abbiamo avuto IFFUSA@Home-Winter. Visto che il tutto era virtuale, alcuni film erano disponibili per dodici ore mentre altri avevano un numero fisso di spettatori che potevano accedere al sito—queste decisioni a proposito dei limiti della disponibilità sono state prese dai distributori in Italia. Guardando in avanti verso la primavera del 2022, le proiezioni dovranno essere dal vivo di nuovo presso i campus universitari e altri luoghi delle varie città incluso il Kemper Museo di Arte Contemporanea a Kansas City e il Film Theater di Detroit. I film per il 2022 sono già stati scelti. Per ulteriori informazioni potete controllare il sito: www.italianfilmfests.org. Hai avuto la possibilità di conoscere attori e registe? Dal 2005, IFFUSA ha ospitato molti registi, fra cui ci sono Francesco Falaschi (Quanto basta), Francesco Prisco (Bob & Marys), Giovanna Taviani (Fughe e approdi) e Paola Randi (Into Paradiso). I registi invitati dall’IFFUSA vanno spesso all’European Union Film Festival a Chicago e soprattutto al WorldFest di Houston. È più interessante per loro visitare luoghi diversi d’America e poi in questo modo l’IFFUSA e gli altri festival condividono le loro spese di viaggio. Per curiosità, quali altri festival di cinema sono ospitati qui a St. Louis? E quali altri festival di film italiani sono importanti negli Stati Uniti?
Allora per iniziare St. Louis organizza diversi festival di cinema incluso: Whitaker St. Louis International Film Festival (SLIFF) African Film Festival Classic French Film Festival St. Louis Filmmakers Showcase Poi, sul sito di Cinema St. Louis (CSL), si può iscrivere alla loro e-newsletter, Cinéscoop. Ci sono pure molti festival di cinema italiano negli States. La Casa Zerilli-Marimò alla New York University organizza N.I.C.E. che già festeggia i suoi 30 anni; come istituto sponsorizza tantissime iniziative cinematografiche ed altro: www.casaitaliananyu.org/events. Insegni cinema da qualche parte? No, ma insegno corsi di lingua italiana e cultura italiana presso la rete della St. Louis Community College (STLCC) e alla Southern Illinois University/Edwardsville (SIUE). Vorrei aggiungere che anche Bologna ha una radicata tradizione di cultura cinematografica —quasi come Roma, ma molto diversa. La facoltà universitaria di DAMS (Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo) è l’unica in tutta l’Italia, vedi www.corsi.unibo.it/laurea/DAMS per scoprire di più. Bologna ha inoltre la fortuna di ospitare un cinema speciale, Cinema Lumiere, che organizza numerosi festival durante tutto l’anno, vedi: www.cinetecadibologna.it/. Per chi ama il cinema, questo posto è un gioiello al livello europeo ed internazionale. Bologna ospita anche un programma importante sui diritti umani intitolato Human Rights Nights Film Festival, www.humanrightsnights.org e un fantastico festival estivo, Cinema Ritrovato, all’aperto in Piazza Maggiore, www.festival.ilcinemaritrovato.it/ ELIZABETH BERNHARDT, PHD Nato a St. Louis nel 1995, Vaughn Davis Jr. è cresciuto con l'arte nella sua famiglia: sua nonna crea oggetti e decora la sua casa in modo eclettico e suo padre è sempre stato bravo a disegnare. Vaughn ha continuato a seguire questi stessi percorsi familiari e poi si è laureato in arte: ha ricevuto il suo BFA in scultura (con lode) presso la Webster University. Vaughn inizia il suo lavoro come la maggior parte dei pittori. Mescola colori e pittura su tela e spesso usa tinte tradizionali che sarebbero piaciute agli antichi maestri: rossi, blu, gialli, verdi, ecc. Ma a differenza di molti dei vecchi maestri, Vaughn ama dipingere le tele quando sono bagnate in modo che i pigmenti stingono e si espandano l'uno nell'altro. Gli piace anche dipingere entrambi i lati delle sue tele. Continuando a lavorare contro la secolare tradizione europea fissata nelle regole e nei regolamenti delle corporazioni, Vaughn continua il suo processo di decostruzione in numerose mode. Usa tele prive di cornici, quindi il suo lavoro non fa riferimento a quadrati fissi "intrappolati" in cornici (come la maggior parte delle opere su tele). Affligge la sua tela dipinta e sciolta con l'aiuto di coltelli, forbici, lame e le sue stesse mani. Taglia, strappa, imbratta e deforma le sue tele senza mai rimuovere alcun elemento del tessuto; quindi se le sue tele fossero di nuovo appiattite, sarebbero intatte e intere. Spiega che la sua arte è una reazione al passato, una reazione ai classici; è un'arte di protesta. Vaughn trasforma queste tele dipinte e strappate in sculture 3D che sfidano la compostezza. Spiega che strappa per “aprire” la tela, per liberare la sua planarità. Sembrano davvero libere. Spiega che il processo di decostruzione delle tele significa una ricerca ed una apertura del sé stesso. In questo modo, l'ho visto strappare alcuni dei suoi lavori che erano già stati appesi sui muri della galleria; ha detto che anche il suono dello strappo della tela è terapeutico. I prodotti finali sembrano essere dipinti e sculture allo stesso tempo. Inoltre le sue opere sono in movimento nel senso che sono in grado di evolversi. Ogni volta che vengono spostati, i pezzi assumono nuove forme e curve. a seconda di come vengono appesi. Poiché diventano così diversi ogni volta che vengono mostrati, Vaughn ha persino dato loro titoli diversi quando si trasformano in luoghi diversi. Lui lo chiama un lavoro “freestyle.” È affascinante pensare che la tela sia stata utilizzata dagli artisti da circa 500 anni. La tela fu resa popolare dai pittori veneziani nel Cinquecento (come Paolo Veronese,1528-1588) nel suo controverso ed enorme dipinto, Cena in casa di Levi), e il suo uso si diffuse poi da Venezia in tutta Europa e nel mondo dell'arte. A Venezia, la tela, realizzata con fili intrecciati della forte e resistente pianta di canapa coltivata sulla terraferma era tessuta localmente e fu prontamente disponibile per i marinai per le vele delle loro navi. Fu successivamente adottata da pittori pratici per grandi composizioni. La tela pesa molto meno del pannello in legno, non si deforma come il legno per l’umidità locale, è più facile da spostare rispetto al pannello poiché è arrotolabile, costa meno del pannello e non cade dai muri come fanno gli intonaci bagnati o gli affreschi nelle case costruite letteralmente nell'acqua intorno ad una laguna. È affascinante vedere Vaughn, un artista del 21 ° secolo in posto come St. Louis, riprendere questo stesso materiale storico nel suo lavoro. La tela di Veronese, che era commissionata per rappresentare l'Ultima Cena, lo mise nei guai con l'Inquisizione a causa di tanti dettagli di vita reale aggiunti ad essa: golosi, ubriaconi, ricchi patrizi, soldati protestanti tedeschi, cani e gatti addormentati, nani, servi, un uomo con il naso sanguinante e altri elementi potenzialmente presenti a una cena aristocratica—cose del tutto estranee ad una rappresentazione più tradizionale dell'Ultima Cena. La tela di Veronese è quindi legata alla vita reale e ad una natura artistica ribelle. In modi diversi, le tele di Vaughn sono legate a questi due stessi concetti. Il lavoro di Vaughn è anche legato a quello di Sam Gilliam (nato 1933) che ha dipinto enormi tele colorate e le ha appese in modo liberatorio. Le tele di Gilliam sono considerate sculture eppure sono spesso modellate e formate più regolarmente rispetto alle opere di Vaughn. Il lavoro di Vaughn ricorda anche le famose tele tagliate di Lucio Fontana (1899-1968), nato in Argentina ma tornato in Italia dove ha contribuito a cambiare le tradizioni secolari della pittura italiana. Fontana ha cercato di sfuggire dalla "prigione" della superficie piatta del quadro per esplorare il movimento, il tempo e lo spazio. Vaughn a volte inizia a tagliare come Fontana, ma fa un ulteriore passo avanti con lo strappo, la modellatura e le installazioni irregolari. Vaughn è anche legato al gruppo Gutai (具体 美術 協会) di artisti giapponesi del dopoguerra il cui lavoro sperimentale è profondamente legato alla libertà e alla liberazione. Questo gruppo degli anni '50 si è concentrato sulla sperimentazione, sulla performance e sulla liberazione del colore mentre Vaughn ha trovato una strada leggermente diversa concentrandosi sulla liberazione della tela da se stessa.
Infine, l'opera di Vaughn ricorda lontanamente un altro dei più grandi artisti e contestatori sociali: Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610). Caravaggio amava spingere al limite le sue tele, anche se ai suoi tempi spingerle oltre la norma significava spesso raffigurare un realismo intenso e crudo; un ottimo esempio viene in mente nella sua Morte della Vergine ora al Louvre. Veronese e Caravaggio, tra tutti gli artisti che hanno impiegato la tela per scelta, sarebbero affascinati nel vedere come Vaughn usa e libera la stessa materia così come gli italiani pre-moderni che l'hanno usata potrebbero essere affascinati nell'apprendere che la tela rimane popolare tra gli artisti oltre oceano del 21° secolo. Vaughn ha avuto molta esperienza in cose diverse benché abbia solo 25 anni. Ha lavorato in negozi di abbigliamento e presso un bar, ha studiato all'estero a Vienna e sta valutando se fare un MFA al Royal College di Londra. Suona la tromba ed è un gestore d'arte professionista. Gli piace andare in giro nei quartieri di St. Louis sul suo longboard. Fa parte di una galleria che segue il "modello di Filadelfia" chiamata Monaco su Cherokee Street. In futuro, continuerà un processo di decostruzione legata all'uso della tela e / o della pittura? Continuerà a decostruire l'arte prima di ricostruirla? Continuerà a creare pezzi che attraversano i generi e che rimarranno contemporaneamente dipinti e sculture? Ha davanti a sé un'entusiasmante strada da percorrere. ELIZABETH BERNHARDT, PHD Born and raised in St. Louis, Vaughn Davis Jr. (b. 1995) grew up with art in his family: his grandmother makes things and decorates in eclectic ways and his father has always been great at drawing. Vaughn began along these same family lines and then worked toward a formal art degree: he received his BFA in Sculpture (with honors) from Webster University. Vaughn begins his work like most painters. He mixes colors and paints on canvas, and he often uses traditional tints that would have appealed to Old Masters: reds, blues, yellows, greens, etc. But unlike many of the great old-schoolers, Vaughn likes to paint the canvases when they are wet so that the pigments bleed and expand into one another. He also likes to paint both sides of his canvas. Continuing work against the centuries-old European tradition fixed in guild rules and regulations, Vaughn continues his deconstruction process in numerous fashions. He uses canvas free from frames so his work does not reference fixed squares "trapped" in frames (like most art employing the use of canvas). He distresses the loose painted canvas itself with the help of knives, scissors, blades and his own two hands. He cuts, tears, rips, smushes and warps his canvases yet without ever removing any element of the canvas; so if his canvases were flattened out, they would be intact and whole. He explains that his art is a reaction to the past, a reaction to the Classics; it is an art of protest. Vaughn makes these painted and ripped canvases turn into 3D sculptures that detest restraint. He explains that he rips and tears in order to "open up" the canvas, to release flatness and to free them. They really do appear free. He explains that the deconstruction process signifies the search and the opening up of the self. Along these lines, I watched him tear some of his work that had already been hung in the gallery; he said that even the sound of the canvas ripping is therapeutic. The final products appear to be paintings and sculptures “in one.” Furthermore, his works are in movement in the sense that they are able to evolve. Each time they are moved, the pieces takes on new forms, curves and shapes depending on how they are hung—and because they become so different each time they are displayed, Vaughn has even given them different titles as they transform themselves in different locations. He calls it freestyle work. It is fascinating to think that canvas has been used by artists for about 500 years now. Canvas was popularised by Venetian painters in the Cinquecento (like Paolo Veronese (1528-1588) in his controversial and enormous painting, Feast in the House of Levi), and the use of it spread across Europe and through the art world. In Venice, canvas—made from weaving strands of the strong and resistant canapa plant—was grown on the terraferma, woven locally, and readily available to sailors for their ship sails but later adopted by practical painters for large-scale compositions. Canvas weighs a lot less than wood panel, it does not warp like wood in the intense local humidity, it is easier to move around than panel since it can be rolled up, it costs less than panel, and it does not fall off of walls like wet plaster or frescoes does in homes built in water around a lagoon. It is fascinating to see Vaughn, a 21st c. artist from St. Louis, take up this same historical material in his work. Veronese’s canvas, commissioned to represent the Last Supper, got him in trouble with the Inquisition because of so many real-life details added to it: gluttons, drunkards, wealthy patricians, German Protestant soldiers, sleeping cats and dogs, dwarves, servants, a man with a bloody nose, and other elements potentially present at an aristocratic dinner party—things thoroughly extraneous to a more traditional depiction of the Last Supper. Veronese’s canvas is therefore tied to real life and to a rebellious artistic nature. In different fashions, Vaughn’s canvas is tied to those two same concepts. Vaughn’s work is also related to that of Sam Gilliam (b. 1933) who has painted enormous colourful canvases and hung them in liberating ways. Gilliam’s canvases stand as sculptures yet they are often more regularly patterned and formed when compared to Vaughn’s pieces. Vaughn’s work also recalls the famous slit-up canvases of Lucio Fontana (1899-1968) who was born in Argentina but returned to Italia where he helped deconstruct the centuries-old traditions behind Italian painting. Fontana sought to escape the “prison” of the flat picture surface to explore movement, time, and space. Vaughn sometimes begins to cut like Fontana yet goes a step further with irregular ripping, shaping and installing. Vaughn is also related to the Gutai group (具体美術協会) of post-war Japanese artists whose experimental work is deeply tied to freedom and liberation. This 1950s group focused on experimentation, on performance, and on liberating color—while Vaughn has found a slightly different path as he focuses on liberating the canvas from itself.
Lastly, Vaughn’s work distantly recalls another of Italy’s greatest artists and social protestors: Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610). Caravaggio loved pushing his canvases to the limit—although in his time pushing them beyond the acceptable norm often meant depicting intense and crude realism; a great example comes to mind in his Death of the Virgin now in the Louvre. Veronese and Caravaggio—among all artists who have employed canvas as their medium of choice—would be fascinated to see how Vaughn uses and liberates canvas—and the early modern Italians who used it might also be fascinated to learn that canvas remains popular with artists into the 21st century. Vaughn has had a lot of experience doing different things—although he is a mere 25 years old. He has worked in clothing stores and at a coffee house, he studied abroad in Vienna and is considering an MFA at the Royal College of London. He plays the trumpet and is a professional art handler. He likes to go cruising around St. Louis neighbourhoods on his longboard. He is part of a “Philadelphia model” gallery called Monaco on Cherokee Street. Into the future, will he continue a deconstruction process related to the use of canvas and/or painting? Will he continue to deconstruct art before perhaps re-constructing it from scratch? Will he continue to create pieces that cross genres and remain simultaneously paintings and sculptures? He has an exciting open road ahead. Villa Antonio is a winery located in the beautiful rolling hills of south-eastern Missouri. The wines they produce are hand-crafted using Northern Italian traditions from varieties of grapes solely grown on their property in Hillsboro, Missouri. Villa Antonio was founded by the late Antonio Polesel, a native of Treviso, Italy. Antonio's wife, Fernanda Tarticchio Polesel, a native of Istria, has been the heart and soul of the kitchen at Villa Antonio since its founding. Current owners are Thomas Polesel and his wife Adriana. Thomas, the son of Antonio Polesel, carries forward his family legacy adhering to the same age-old traditions of traditional wine-making. The Italian Community of St Louis thanks the Polesel family for their generous sponsorship. We look forward to creating many memorable experiences together.
For more information on the winery, please visit their website. Summer hours (May - September): Daily 11AM - 5PM, Fridays 11AM - 9PM; Winter hours (October - April): Daily 11AM - 5PM Elizabeth Bernhardt, PhD, intervista Danilo Caracciolo, regista a Bologna Come hai deciso di fare il tuo mestiere e come hai imparato a fare cinema? Da bambino ero un grande fruitore di televisione, quando ancora la tv pubblica era di servizio e non commerciale. C’era un’altissima qualità e, in particolare, la mia generazione veniva forgiata dai documentari di Folco Quilici e dagli sceneggiati, l’equivalente delle odierne series. Essi vantavano la presenza di grandi attori provenienti dal teatro di livello nazionale e internazionale, come Alberto Lupo, Ugo Pagliai, Gian Maria Volontè, Valeria Moriconi, Bekim Fehmiu, Irene Papas, Enrico Maria Salerno, Gino Cervi, Lina Volonghi, Nino Castelnuovo, solo per citarne alcuni. Molti autori e registi erano, inoltre, figure di altissimo livello culturale, che si sentivano investiti del dovere deontologico di diffondere valori e principi in cui si riconosceva l’Italia del dopoguerra, come la Costituzione, la Resistenza e l’antifascismo. Ad esempio, quando ci si avvicinava alla celebrazione del 25 aprile, la tv pubblica trasmetteva decine di film, documentari e sceneggiati che avevano come tema le vicende della Resistenza e della lotta al nazi-fascismo, cosa inimmaginabile oggi. Le giovani generazioni di allora potevano addentrarsi in quell’esperienza grazie alla splendida dialettica narrativa di maestri come Lizzani, Rosi, Risi, Germi, De Sica e tanti altri. Diveniva l’atto di fondazione della propria coscienza critica, il cinema e la tv contribuivano a prendere una posizione, indicando, senza filtri, quale fosse quella sbagliata. Al pari della letteratura, i media sancivano la costruzione di consapevolezze, inculturazione. Con l’avvento delle tv commerciali negli anni 80, tutto ciò è tramontato e si è aperto il baratro liberista responsabile della deriva sub-culturale del presente, un presente in cui la cultura è intesa più come un ostacolo che come un prerequisito indispensabile per lo sviluppo di una società più equa, responsabile ed ecosostenibile. L’audiovisivo è stato per me una scelta inaspettata, dettata più dall’ impeto creativo che altro. Ho una formazione artistica, afferente alla scenografia teatrale ed alle arti figurative. L’urgenza narrativa ha fatto il resto. Nel 1997, sentì, infatti l’impulso di rappresentare ciò che sentivo e vedevo con un nuovo strumento: la videocamera. E i risultati furono immediati, perché il primo cortometraggio che realizzammo (“Tragos”) ottenne dei riconoscimenti. Da quel momento, capii che potevo addentrarmi in quel mondo autoriale, pur non avendo frequentato il Dams. La passione e la dedizione per ciò in cui crediamo, produce risultati sorprendenti e credo che tutti dovrebbero avere la possibilità nell’unica vita che hanno a disposizione, a maggior ragione i più svantaggiati, di abbandonare gli steccati, come li definisce Ken Wilber, per dare spazio alle proprie aspirazioni concedendosi l’opportunità di osare. Hai avuto un maestro particolarmente importante per tuo cammino? Com’era? Purtroppo non ho avuto la fortuna di avere un maestro, Mi sarebbe piaciuto molto poter iniziare come assistente in una produzione diretta da un grande regista, ma ero obbligato a lavorare per sopravvivere ed ho dovuto rinunciare a questa opportunità. All’inzio, la mia scuola è stata l’autoformazione, unitamente all’incontro stimolante con molte persone di spessore, che hanno contribuito ad ottimizzare il mio sguardo, ad affinarlo. Da politici e storici illuminati, passando per registi, autori, maestranze e attori. Tutti coloro che ho incontrato mi hanno insegnato qualcosa. Poi, ovviamente, le esperienze lavorative hanno fatto il resto, come l’attività di comunicazione istituzionale e video giornalismo, la formazione che ho condotto come docente sull’audiovisivo per anni, l’università. Noto che lavori molto su argomenti bolognesi—quanto è importante il luogo in cui vivi per il tuo lavoro? Raccontaci la tua storia. Ti racconto un aneddoto: molti anni fa, in occasione di una presentazione al cinema di un mio lavoro sulla Resistenza bolognese, un critico cinematografico affermò pubblicamente: “sorprende che queste vicende bolognesi siano state raccontate, oggi, da un regista napoletano”. Sia pur lusingato per il primato, contestai la sua affermazione, dichiarando che “i temi della Resistenza non hanno confini e sono, più di ogni altro valore, universali e non hanno nemmeno un tempo prestabilito per essere rappresentati in quanto eterni. Il trasferimento a Bologna non è stato solo dettato dall’opportunità di lasciare il sud, che non offriva prospettive, ma anche da sentimenti e aspettative politiche e culturali. Una scelta dettata anche da contaminazioni familiari. Mio zio si trasferì in questa regione negli anni 70 per affinità generazionale e culturale, sospinto dagli ideali di quell’epoca, in cui Bologna svolgeva un ruolo centrale nel panorama politico e culturale con una chiara connotazione a sinistra. Mi esortava a fargli visita e, durante le chiusure scolastiche estive ed invernali, lo raggiungevo da Napoli, dove vivevo. In queste occasioni, mi trasmetteva i suoi valori e il suo immaginario di società ideale che, a suo parere, solo a Bologna si sarebbe potuto concretizzare, compartecipando attivamente ad un progetto alternativo di società. Negli anni ebbi modo di conoscere amici, entrare gradualmente nel tessuto sociale fino al trasferimento definitivo nel 1987. Questa città è stata un contenitore sperimentale per un modello fattivo di società, non solo utopistico. Gli amministratori illuminati che provenivano da venti anni di dittatura fascista e che presero parte alla Lotta di Liberazione, in primis il sindaco Giuseppe Dozza in carica dal 1945 al 1966, avevano dato vita ad un welfare di impostazione scandinava, socialdemocratico, piuttosto che rigidamente socialista. Difatti negli anni 60 il modello bolognese fu studiato negli Stati Uniti e oltremanica perché veniva riconosciuto universalmente giusto. In un articolo del New York Times del 1961, l’inviato riconobbe a Dozza il ruolo di amministratore capace e umano, persino per i suoi nemici, lodandolo per la ricostruzione morale e materiale della città e per la creazione di un welfare avveniristico unico al mondo. Il cronista statunitense non si capacitava, affermando: “com’è possibile che Bologna è così democraticamente ben amministrata se il sindaco Dozza è un comunista ortodosso?” Hai trovato argomenti molto particolari per i tuoi documentari. Come si potrebbe categorizzare il corpo del tuo lavoro? (il lavoro sul sindaco a Dozza; la storia delle mondine; la storia della fondatrice dei nidi comunali; le case del popolo in Italia ed altrove…) Insomma come trovi i tuoi soggetti ed argomenti? Decisi di approcciare al documentario per dovere civile. Lo consideravo un atto di militanza, visto che le mutazioni storico-sociali avevano lasciato un vuoto identificativo in chi, come me, si collocava in una specifica area politica e culturale. Dunque, ho sentito l’esigenza di dare il mio contributo alla necessaria opera di tutela della memoria, con altri strumenti. Questa è una regione che ha pagato caramente l’avversione al nazi-fascismo durante la seconda guerra mondiale, non si potevano lasciar cadere nell’oblio le vicende, spesso drammatiche, che hanno segnato la storia di questo territorio e di quelle generazioni. Ho voluto raccontare la storia sociale di riscatto che è nel dna dell’Emilia Romagna, delle sue genti che un tempo si riconoscevano nel cooperativismo e nell’unione di intenti, nella prossimità e solidarietà, nel sacrificio contro le ingiustizie e nella lotta per i diritti. Purtroppo un abisso separa quella stagione dal presente. Hai fatto tanti film su momenti difficili a Bologna (la Resistenza, la seconda guerra mondiale, ecc.) Quale consideri il più importante? Parlaci un po' della tua opera, per favore. Sono affezionato a tutte le mie opere. Quello che mi gratifica di più è il ricordo dell’adesione del pubblico in determinate occasioni, la commozione e l’indignazione, quel senso comunitario partecipato, i battiti di mani ad accompagnare le colonne sonore, ad esempio su brani epocali come “Stalingrado” o per le meravigliose melodie di uno dei miei migliori amici, Roberto “Sacco” Secchi, prematuramente scomparso 10 anni fa e che mi manca molto. Ricordo che i miei docufilm dedicati ai temi resistenziali e sociali, scaturivano un grande entusiasmo in città, sono stati occasione di coesione tra più realtà culturali. Ad esempio, quando c’era una proiezione, gli spazi antistanti ai cinema si riempivano di associazioni, gruppi e bande musicali, rappresentanze delle istanze sane della città, tanta gente festante e partecipe che veniva ad offrire il proprio contributo alla giornata e ai protagonisti presenti in sala, spesso partigiani, con balli, danze, cori, poesie. Una dimensione compartecipata popolare che rimpiango. Com’è la cultura del cinema a Bologna? Com’è il programma del DAMS e delle scuole di cinema bolognesi? Se uno volesse imparare a fare il tuo mestiere, dove si può imparare a fare cinema a Bologna? E com’è la situazione a Roma rispetto a Bologna per fare cinema oggi? La centralità di Bologna nel panorama produttivo nazionale è nota, ma il settore vive un grande momento di difficoltà. La pandemia ha ingenerato una crisi senza precedenti e molte realtà stanno scomparendo. La virata verso l’inevitabile distribuzione on demand, che per certi versi è anche portatrice di nuovi modelli di fruizione cui si dovrà necessariamente volgere lo sguardo per il futuro, ha modificato l’attenzione nei confronti del documentario. Nascendo sempre più spesso da grandi sforzi produttivi “dal basso”, il documentario occupa oramai un settore di nicchia, che si distingue dalle grandi produzioni seriali dell’indotto industriale, peraltro generalmente poco contenutistiche e molto orientate verso l’intrattenimento. Ovviamente per le piccole società di produzione sul territorio rappresenta la fine, se le istituzioni deputate al sostegno culturale ed economico non tornano presto a rivolgere la giusta attenzione nei confronti del settore. A Roma la situazione è diversa, come da sempre. Si innesta in un contesto industriale consolidato e vicino ai luoghi di potere della politica. La natura corporativa e lobbista del nostro paese sfavorisce “le periferie”. A chi vorrebbe intraprendere questo mestiere non saprei francamente cosa consigliare, soprattutto in questo momento storico. Di certo quello che suggerirei ad un giovane lungimirante è di andare all’estero. In Francia, ad esempio, o più in generale nel nord Europa. Hai un/una regista preferito? Hai qualche film preferito? Amo la cinematografia sociale italiana degli anni 60. Il mio regista preferito è Dino Risi in coppia con il grande sceneggiatore Rodolfo Sonego. Assieme hanno dato vita a quello che reputo il più bel film italiano di sempre, “Una vita difficile” del 1961, una vera intuizione amara e profetica di ciò che sarebbe stato il futuro in Italia dopo il boom economico, con protagonista un inedito Alberto Sordi (storicamente anticomunista) nei panni del militante di sinistra Silvio Magnozzi, partigiano, giornalista idealista, militante, i cui sogni e la cui lealtà vengono stritolati dalla graduale ed arrembante arroganza della società dei consumi post bellica. Hai fatto il regista di tante cose (serie TV, documentari, cortometraggi, ecc.)—quale genere preferisci?
Scelgo ancora una volta, e nonostante tutto, il documentario. Credo rappresenti la dimensione più intima e umana in cui un autore può esprimersi. E’ ancora il luogo in cui si generano rapporti. Pensa a cosa rappresenta per un autore, ad esempio, lavorare su un doc biografico, pensa al delicato compito che gli viene affidato dal protagonista, e cioè quello di entrare in punta di piedi nella sua vita, nella sua storia, nelle sue memorie. In questo iter, c’è un momento in particolare che ripaga tutti i sacrifici: quando avverto che si è instaurato un patto fiduciario tra cronista e testimone. Solo allora mi rendo conto che è avvenuta una mutazione importante, un’investitura catartica e dunque devo andare fino in fondo. Ci si sente un po’ come “il custode del tempio”. Il documentario è deontologico, l’etica di fondo è innegabile. Che sia di osservazione, narrazione, docufiction, storico o sociale, il cinema del reale resta la più grande opportunità per divulgare conoscenza, fornendo gli strumenti critici necessari contro le omologazioni. E a cose stai lavorando adesso durante questo periodo difficile di Covid? Sto lavorando allo sviluppo (avanzato) di 4 progetti in attesa della ripartenza post-pandemica: “Cacciatori di storia” (Popcultfilm), una docu serie sulla comunità dei cercatori di reperti bellici che con il metal detector si addentrano sulla line Gotica, il fronte della WW2 nel 44-45 tra Toscana ed Emilia; “Gugliemo l’inventore” (Popcultfilm), una serie animata per bambini e ragazzi che narra le vicende dello scienziato Guglielmo Marconi durante la sua infanzia e adolescenza; “L’officina dei corpi” (Popcultfilm), un documentario sulla storia della chirurgia ortopedica dell’istituto Rizzoli e dei suoi illuminati protagonisti negli anni della prima guerra mondiale; il documentario biografico su Edo Ansaloni, creatore del “Memoriale della Libertà” e cronista, con le sue cineriprese e fotografie, delle immagini più significative della Liberazione di Bologna del 21 aprile 1945 (Videomagazine). Dove si potrebbero trovare/vedere i tuoi film? Grazie! I miei lavori sono disponibili in consultazione e prestito gratuito presso: - tutte le biblioteche e mediateche del Servizio Bibliotecario Nazionale OPAC SBN (www.opac.sbn.it) cercando nel database con nome e cognome del sottoscritto; - in distribuzione home video da Balboni video di Bologna (www.balbonivideo.com); - inoltre dall’anno scorso, vista la situazione pandemica, abbiamo deciso di rendere pubblici e gratuiti “Il sindaco, storia di un’utopia realizzata” sul sindaco Giuseppe Dozza, con Ivano Marescotti del 2015 al link: www.docacasa.it/doc-a-casa/il-sindaco/ ; -“Lame, la porta della memoria” del 2004 per il sessantesimo della Liberazione al link e su youtube al link - “1 Map x 2” sul giro del mondo di Tartarini e Monetti nel 1957 su Ducati 175 (disponibile a pagamento al link: www.vimeo.com/ondemand/1mappaper2) Elizabeth Bernhardt, PhD, intervista Betty Zanelli, Visual Artist e docente di Decorazione e Fashion Design presso l'Accademia di Belle Arti di Bologna Tanti anni fa ho incontrato un’artista molto interessante in Via delle Belle Arti, quando abitavo di fronte a lei e molto vicino alla Pinacoteca di Bologna. Durante gli anni siamo diventate amiche e visto che tutta la sua vita si svolge nel mondo d'arte, ho pensato che sarebbe bellissimo conoscerla meglio qui! Ecco alcune domande. Da quando hai saputo che volevi diventare artista? Hai altri artisti in famiglia? Come sei riuscita a realizzare il tuo desiderio in questo campo? Ho sempre saputo di voler diventare un’artista, anche se da bambina non mi era ancora chiaro quale disciplina mi piacesse di più, tra il disegno, la scultura e la fotografia. Quello che posso dirti è che sono stata una fotografa molto precoce. Mio padre era giornalista, critico cinematografico, con una grandissima passione per il cinema e per la fotografia. Aveva sempre con sé la sua Rollei che gli chiedevo di poter usare fin dalla più tenera età. Mi regalò quindi una macchina fotografica tutta per me, una AGFA ISO-RAPID I che ho amato moltissimo. Ho iniziato a fotografare quindi a sei anni e non ho mai smesso… ora uso una reflex digitale Nikon e una Lumix Panasonic LX100. Per rispondere alla domanda su come sono riuscita a realizzare il mio desiderio, devo dire che non è stato facile. Ho cambiato percorso di studi per iscrivermi all’Accademia di Belle Arti di Bologna, al corso di Pittura. E non ho mai smesso di pensare ogni giorno in termini di creazione. Mi chiedo sempre “what’s next?” e trovo sempre nuovi materiali, diverse suggestioni e scenari, nuovi stimoli. L’artista lavora sempre, anche quando nel suo studio guarda il muro bianco, o una crepa del pavimento. Cosa ti piace creare? Dove si può vedere il tuo lavoro in mostra (o magari online in questo momento particolare)? Lavoro per associazioni di idee, per stratificazioni: un lavoro sulla memoria e sul tempo. Ho un forte interesse per quello che è dimenticato dall’uomo, oggetti e luoghi abbandonati, coperti da una patina di oblio. Uso media diversi, disegno e fotografia soprattutto, ma quando ne ho la possibilità preferisco un’opera di tipo installativo perché mi interessa molto lavorare sullo spazio e presentare un racconto completo, che preferibilmente includa vari linguaggi, fotografia, oggetti, disegno e pittura, quest’ultima è spesso integrata alla fotografia, diventando così una nuova immagine alterata dalle sovrapposizioni in un inganno ottico tra ciò che è vero e ciò che è dipinto. Una mia opera è in mostra in questo periodo presso il palazzo dell’Assemblea Regionale a Bologna, ma il mio lavoro si può vedere sul mio sito www.bettyzanelli.com o sulla mia pagina instagram. Dove insegni e che tipo d’arte ti piace insegnare? Insegno all’Accademia di Belle Arti di Bologna dove sono docente di Decorazione e Fashion Design. Insegnare mi piace molto, è un dialogo continuo con i giovani molto stimolante. La cosa che mi interessa di più è trasmettere agli studenti la passione per l’arte e far nascere la fascinazione. Trasmettere la forza rivoluzionaria che rappresenta. Per me è come passare il testimone ai giovani artisti. La città di Bologna e la cultura bolognese influiscono sul tuo lavoro? Come? Qui si apre un capitolo difficile. Credo di avere un rapporto di odio/amore con Bologna: cerco sempre di lasciarla, più sono lontana più sono felice, ma poi non so come, vi faccio ritorno. Ho cominciato a viaggiare assieme alla mia famiglia molto presto. Mio padre era inviato a Parigi e quindi da bambina ho passato là molto tempo. Poi abbiamo iniziato a seguirlo anche ai festival cinematografici e abbiamo avuto la possibilità di vedere un po’ di mondo. E così, appena ho potuto, me ne sono andata. L’occasione si è presentata con una mostra al PS122 di New York. Sono partita per New York giovanissima, avevo appena finito l’Accademia. Era la metà degli anni ’80 e ho trovato una città incredibile, così traboccante di creatività, di arte ad ogni angolo di strada, di opere d’arte grandiose dentro a meravigliosi musei accanto alle piccole gallerie alternative del Lower East Side. Una sensazione elettrizzante di libertà, di possibilità di creare qualsiasi cosa, di essere qualsiasi cosa. Insomma, il sogno di ogni giovane artista. Avevo trovato il luogo più lontano da Bologna, non solo geograficamente, ma anche concettualmente. Per questo ed altro, a New York mi sono fermata per 8 anni e ho lavorato lì come artista, un pezzo di vita molto importante per la mia crescita personale, utile per la mia formazione, la mia creatività e la mia professionalità. Quindi per rispondere alla tua domanda, direi proprio di no, Bologna non influisce sul mio lavoro. New York prima e Berlino in seguito, hanno influenzato il mio lavoro. Bologna rappresenta altre cose, per me: è una culla accogliente, una madre rassicurante; è l’aria dolce di casa, delle sere sui colli, del cinema in piazza, degli amici fidati. Hai un’opera d’arte preferita a Bologna oppure magari un artista bolognese preferito? A chi visitasse Bologna per la prima volta, cosa consiglieresti di vedere? Bologna è una città bellissima, ricca di monumenti e opere d’arte a ogni angolo di strada. Suggerisco in particolare di visitare le chiese, numerosissime a Bologna, ricche di opere meravigliose, anche dove meno te l’aspetti. Per quanto riguarda la mia opera d’arte preferita a Bologna, ti direi la Basilica di Santo Stefano, detta “Le Sette Chiese”, una serie di chiese incastrate una dentro l’altra, in cui si può godere di veri gioielli di epoca romanica. Anche per trovare i miei artisti bolognesi preferiti bisogna andare un po’ indietro nel tempo: sono due donne, la pittrice Lavinia Fontana (1552-1614) e Properzia de’ Rossi (1490 circa-1530), una straordinaria scultrice troppo spesso dimenticata. Michael Cross intervista il dott. Michele Boldrin chiedendogli le sue opinioni a riguardo del nuovo governo italiano formato da Mario Draghi e sulle questioni economiche relative all'Italia, all'UE e agli Stati Uniti. Michele Boldrin è l'economista più quotato di St Louis, oltre a James Bullard, presidente della Federal Reserve Bank di St Louis. Boldrin è nato a Padova, ma è cresciuto a Venezia, dove ha frequentato l'Università Ca’ Foscari. É stato il Preside del Dipartimento di Economia della Washington University di St. Louis. Il suo contributo alla teoria dell'equilibrio economico generale e ad altre teorie macroeconomiche sono stati pubblicati nel libro "Against Intellectual Monopoly" di cui è coautore con David K. Levine.
Prof. Boldrin, è un vero piacere rivederla e poter finalmente uscire all’aperto. Come ben saprà, viviamo in un periodo incerto. Mi chiedo se lei, da esperto di problemi economici, abbia notato cambiamenti importanti a causa della pandemia. Sono curioso di avere più informazioni a riguardo dell’impatto macroeconomico che la pandemia del Covid-19 ha avuto sulla società, ed in particolare sull'UE e gli Stati Uniti. Crede che un giorno tutto possa tornare alla normalità pre-Covid? Alcune attività non torneranno mai a “come erano prima”, almeno per alcune persone. Fra di esse vi sono quelle che in questa epidemia hanno visto la fine del mondo causata da non si sa bene quale peccato degli umani. Altre persone, invece, si saranno già evolute verso altre modalità operative, penso a tutte le aziende che, spinte dalla necessità, hanno imparato a lavorare bene a distanza (in “smart working”, come si dice ... neache che la maniera in cui lavoravamo prima fosse “dumb working”) e che stanno trovando modalità per renderlo più efficiente. Senza alcun dubbio la pandemia e le forme in cui è stata gestita hanno spinto le persone ed aziende con maggior capacità di adattamento a cambiare modo di lavoro riducendo contatti, viaggi, riunioni. Questo fa risparmiare risorse, riduce l'inquinamento e fa scoprire nuove capacità, questo processo continuerà. Ma il vero problema sta in quelle milioni di persone che, per mille ragioni, non possono cambiare o almeno non possono farlo rapidamente. Penso a tutti i servizi personali che richiedono presenza, dal ristorante al parucchiere all’insegnamento (no, la Didattica a Distanza NON è un buon sostituto di quella tradizionale, specialmente per i giovani sino ai 18-20 anni e, se devo giudicare sulla base della mia esperienza a Ca’ Foscari e Washington University in St Louis, neanche per gli studenti di college). Per tutti questi il ritorno alla normalita’ potrebbe non avvenire molto facilmente. Seguo da tempo il suo modello di pensiero. Ho notato, nello specifico, alcune delle critiche, a volte ciniche, a riguardo all'economia italiana. Qual’è, secondo lei, il futuro dell'Italia? Qual’è, secondo lei, la soluzione ai mali che da decenni affliggono l'economia italiana? Impossibile risponderle in poche righe, come sa se ha letto quello che scrivo. Provo con uno slogan: in Italia domina la cultura della mediocrità, dominano i mediocri ad ogni livello ed è sparita non solo la meritocrazia ma anche la capacità di assumersi la responsabilità degli atti compiuti. I mediocri non sono solo incapaci di governare, innovare, creare ed essere responsabili, sono anche tipicamente invidiosi di chi ha qualcosa di “migliore” di loro. Questo ha generato in Italia una guerra di tutti contro tutti: ogni piccolo gruppo sociale vuole mantenere i propri privilegi ed appropriarsi di quelli altrui, in una escalation di “domande di diritti” e di “rifiuto dei doveri” che non ha uguali nel mondo occidentale. Di conseguenza i giovani migliori fuggono, letteralmente, appena possono. Ne sono personalmente testimone: ricevo settimanalmente dozzine di richieste di “consigli su come andarsene”. Una tristezza infinita ma il problema, da tempo, non e’ più solo economico ma culturale e valoriale. Passiamo all'argomento del nuovo premier italiano Mario Draghi. Qual è la sua opinione del nuovo primo ministro italiano ed ex presidente della Banca centrale europea? Ho un’ottima opinione di Mario Draghi, persona capace, efficace e moralmente integra. Purtroppo non credo che il suo premierato cambierà le cose perchè i vincoli imposti alla sua azione dall’attuale parlamento sono enormi. E lo si vede già, sia nella composizione del governo sia negli atti sino ad ora adottati. A fronte di poche azioni coraggiose ed utili (fra tutte, il licenziamento di Domenico Arcuri) ve ne sono già almeno una dozzina di deleterie, dall’estensione dei contratti per i navigatori ai progetti di nuove assunzioni pubbliche alla continua imposizione di uno stato d’emergenza che viola le libertà personali e non attenua l’espansione del virus. Crede che Draghi avrà più successo rispetto a Monti? Glielo auguro, visto il disastro che Monti causò. Ma mi riesce difficile fare confronti, le due situazioni sono molto diverse ed il contesto internazionale è completamente cambiato. E, inoltre, Draghi si è posto obiettivi molto limitati: far vaccinare gli italiani (la situazione sta migliorando ma prima era tragica) e preparare un PNRR accettabile dal resto dei paesi europei. Niente altro, apparentemente. Un esperto di economia può essere un buon politico secondo lei? Quanti economisti hanno ricoperto il ruolo di premier avendo discreto successo, secondo lei? Non dipende dal titolo di studio se una persona può essere o meno un buon leader politico. L’esperienza prova che i buoni politici possono venire da qualsiasi settore o professione. Conta la situazione storica e la caratura intellettuale e morale della persona. Ed anche un po’ di fortuna, sia chiaro. Francamente per rispondere alla seconda domanda dovrei andare a controllare, il che proverebbe che, appunto, il titolo di studio conta poco. Ha intenzione di far rinascere il partito "Fare per fermare il declino"? No. Esperienza fatta, rovinata da altri, fine. Con il M5S allo sbaraglio (vedi: Conte) ed il PD in stato confusionale a causa di Zingaretti, sembra proprio che l'unica speranza per l'Italia sia il centro destra, non crede? Si, concordo. Ma questo centro destra, ignorante e fascistoide, potrebbe fare peggio della sinistra che ha governato dal 2011 ad oggi. E questo è un grave problema. Il declino del paese, dispiace dirlo, continuerà. Perché Luigi Di Maio è ancora al potere come Ministro degli Esteri? Sembra essere il politico più inadeguato al ruolo che l'Italia abbia mai avuto. Perchè continua a rappresentare gli interessi italiani all'estero? Durante le mie interviste con numerosi expats italiani, non sono riuscito ad incontrare una sola persona che non consideri di Maio un politico imbarazzante. Questo non deve chiederlo a me ma ai milioni di italiani che l’hanno votato. É il capo del partito di maggioranza relativa in questo parlamento e l’Italia è una repubblica parlamentare. Quindi ha potere. Triste, ma è un fatto. Si chiama democrazia e funziona così. D’altro canto, Donald Trump ha governato per 4 anni gli USA facendo danni immani ed anche quella era democrazia. É stato più che un piacere, come sempre, professor Boldrin. Non vedo l'ora di rivederci quanto prima alla “Casa Don Alfonso - St Louis”, uno dei nostri ristoranti preferiti. La comunità italiana di St Louis dà il benvenuto al nostro nuovo Console Generale d'Italia, Thomas Botzios. Non vediamo l'ora di collaborare con lui durante il suo mandato e di dargli il benvenuto a St Louis. Thomas Botzios è nato l’11 maggio 1970 a Roma, dove si è laureato in giurisprudenza il 24 gennaio 1995. Dopo aver svolto attività di libero professionista e nel settore privato, è entrato in carriera diplomatica, in seguito ad esame di concorso, il 17 dicembre 2001.
Successivamente al periodo di formazione, in cui ha prestato servizio presso la Direzione Generale per i Paesi dell’Africa subsahariana e al Servizio del Contenzioso Diplomatico, il suo primo incarico è stato presso la Direzione Generale per il Personale. Dal 2005 al 2009 ha prestato servizio presso l’Ambasciata d’Italia a Belgrado con l’incarico di Capo dell’Ufficio economico e commerciale. Nel 2009 e’ stato assegnato all’Ambasciata d’Italia a Washington dove ha ricoperto il ruolo di Capo della Segreteria dell’Ambasciatore. Nel 2013 è rientrato al Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale, presso la Direzione Generale degli Affari Politici e di Sicurezza, occupandosi di cooperazione internazionale nella lotta al terrorismo e ai traffici illeciti internazionali. Dal 2014 al 2020 ha prestato servizio presso la Segreteria Generale, dove ha ricoperto l’incarico di funzionario vicario dell’Unita’di Crisi della Farnesina. Dal 13 ottobre 2020 ha assunto le funzioni di Console Generale a Chicago, competente per Colorado, Illinois, Iowa, Kansas, Minnesota, Missouri, Nebraska, North Dakota, South Dakota, Wisconsin e Wyoming. Thomas Botzios è sposato e parla correntemente italiano, inglese, spagnolo e greco. SANDRA RAMANI - La Cucina Italiana We got the scoop on the more casual Casa Don Alfonso, which will open in St. Louis in late February. For many travelers to the Amalfi Coast and Sorrento peninsula, no visit is complete without a meal at Don Alfonso 1890. Run by the Iaccarino family, the Michelin-starred restaurant in the hilltop village of Sant’Agata sui Due Golfi has for decades been treating diners to elevated—but still authentic—regional cuisine crafted using high-quality ingredients, many sourced from the family’s nearby organic farm. With husband and wife Alfonso and Livia (who founded this incarnation of the restaurant in 1973) welcoming and chatting with guests, their son Mario serving as restaurateur and son Ernesto working his magic in the kitchen, a meal here is also a family affair—with guests quickly feeling like part of the fold.
It’s this family atmosphere that the Iaccarinos want to export to America with the opening of their first US venture. While their consulting arm has previously opened Don Alfonso outposts in destinations like Macau, New Zealand and Canada, those restaurants were more in line with the original location’s fine dining focus. But Casa Don Alfonso—which is set to open at The Ritz-Carlton, St. Louis in late-February 2021—will be a “casual interpretation of what we do in Sant’Agata,” says Mario Iaccarino, who has spearheaded the development of the project. An open kitchen, photos of the Iaccarinos, hand-painted Italian ceramic tiles and a color palette inspired by the lavender fields of Sant’Agata will help set that scene. We chatted with Iaccarino about how the first US Don Alfonso came about, the culinary connections between Italy and the States, and how Casa Don Alfonso’s menu will reflect “the real recipes of the grandmothers. Having had the pleasure of dining at Don Alfonso 1890, it was exciting to hear that you will be opening in the US. How did the project come about? We have been in the consulting business for about 25 years, and have done a few projects around the world during that time. Opening in another location is always the best way to learn about a culture—and every time we do it, we get as much out of the experience as we give. But we aren’t the ones who first select where to go; it happens based on interest, and people approach us. This idea came about a couple of years ago, when a friend of the owners of the new The Ritz-Carlton, St. Louis dined with us in Italy, and then suggested us to the hotel owners. Why did you feel like this would be a good fit—and that St. Louis should be the location for your first US restaurant? I decided to go to St. Louis for the meeting and, honestly, from the first moment I arrived at the hotel, I felt at home. They operate with a very similar attitude as what we have at Don Alfonso, and reflect the same ideas. The hotel’s General Manager, Amanda Joiner, and her team operate the hotel like a family, and from the first moment, I had had the feeling that I was entering into a family. That’s why I felt that we had to do something there. It may sound strange, but I have rarely found myself in such a familiar place as The Ritz-Carlton, St. Louis! For me, it’s also been interesting to get to know a Midwestern city, which has a different culture than what you find on the east and west coasts. People are so friendly—I really enjoy visiting there, and when I leave, I leave with sadness. How will Casa Don Alfonso be different from the fine dining you’re known for? In Italy, we do fine dining, but we are still a family, and we never take ourselves too seriously. Casa Don Alfonso will represent that in a more casual way. Especially now, with everything we are all living through, the goal of restaurants should be to let people relax—to be a place of lightness and happiness. People are tired, and we want to go to restaurants to enjoy the experience, not to be scared of the waiter or maître d’! We started working on this a long time before COVID-19, but with a little bit of courage, I think this could actually be the right moment for this type of project. When people are ready to enjoy again, we will be ready for them. Italian cuisine is obviously so popular in the US, and has deep roots here. How do you see Casa Don Alfonso fitting in to that landscape? There is, of course, a huge Italian community in the US, and my own family is part of that, as most of my mother’s family lives between New York and New Jersey. I feel that the connection between the two countries is one of the strongest in the world, and Italian cuisine is a big part of that—the appreciation of Italian cuisine in the US is a historic one. It brings together generations of families that are so strongly attached to their traditions, sometimes even more so than those of us in Italy. I have memories of being at my aunt’s house in New Jersey and spending 48-hours eating authentic Neapolitan cuisine! With its focus on authentic family dishes, Casa Don Alfonso will fit into that celebration of tradition. Tell us how you developed the menu? We have been working on this project for about one-and-a-half years, and during that time have been doing a deep dive into Neapolitan culture to develop our recipes. Because the sea is a protagonist in Naples and the Campagna region, we are a mix of different cultures and have had culinary influences from places like the Middle East and Far East, seen through ingredients like pepperoncini and olive oil. At Casa Don Alfonso we will eat things that draw from that history. We will also celebrate a world that doesn’t exist much anymore, through the real recipes of grandmothers, done in the traditional—but also a simple and healthy—way. The recipes of many of the region’s well-known dishes have changed over the years, but we will present the 100-percent original versions. These are the kinds of dishes I would eat when I went to my grandmother’s for Sunday lunch. What are some examples of that? We have a lasagna on the menu, which is a dish everyone knows, but this will be the original version of a Neapolitan lasagna. In this interpretation, there is no Bolognese, no Bechamel sauce, no chopped meat. Instead, we use big pieces of meat that we cook slowly with red wine, carrots, celery and bay leaves, for about five hours, then softly slice and add to the lasagna with ricotta. We also use hard boiled eggs—which is the sign that this is coming from a real Neapolitan grandmother! We will also have dishes like Acqua Pazza fish, Campagna-style macaroni gratin, pizzas with an organic sourdough base, and fritto misto done the way you would find on the streets of Naples. My father opened Don Alfonso 1890 in 1973, and I can say that the Casa Don Alfonso menu reflects the exact culinary concept of that original restaurant’s first 15 years, with a focus on all the simple things that are a part of our tradition. Will you be bringing ingredients over from Italy, or sourcing them locally? The main, key ingredients will be shipped from Italy, from a selected a group of small makers. We’ll be using the same dried spaghetti—made by a small producer—as we do at Don Alfonso, and the same tomato sauce and extra virgin olive oil. For other products, including some fresh ones, we’ve identified some great distributors, but we also want to be respectful of local producers—so If we find a special apple from Missouri, maybe we’ll use it in a desert pizza, mixed with cinnamon. It will be a menu that respects the local seasonality. Many of the wines will come from Italy, of course, and we just got the okay to import the limoncello we make using lemons from our farm—so that will be another taste of Sant’Agata in St. Louis. |
AuthorsGiovanna Leopardi Year
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September 2023
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