Gianpaolo Cono - Dedicazione del quadro "Spirit of St Louis" alla comunità italiana di St Louis6/30/2020 GIANPAOLO CONO Artista alla Galleria Martucci, Napoli E’ stato naturale e spontaneo dedicare la tela simbolo di tutte le mie mostre, “Spirit of Saint Louis”, alla comunità italiana della città di Saint Louis. La tela che adesso è in mostra alla Galleria Martucci di Napoli, è nata per essere manifesto del mio pensiero artistico - pensieri liberi ed indipendenti, alla ricerca di una comunità di persone aperte all’integrazione ed alla condivisione. Tutte qualità che nella mia fantasia rispecchiano lo spirito del celebre “volo” di Lindbergh, “volo” sostenuto da una città indipendente, come la città di Saint Louis.
Conoscendo, purtroppo solo attraverso pagine web, la comunità di Saint Louis, ho rivisto quello “spirito” in tutte le iniziative ed in tutte le persone che ne fanno parte, lo stesso spirito che incentivò me tanti anni fa a realizzare il quadro Spirit of Saint Louis. Per concludere vorrei citare le parole del giornalista Cristian Iorio, autore dell’articolo pubblicato sul quotidiano Il Roma …”Vedendo la mostra, finalmente capisco perché l’artista Gianpaolo Cono abbia voluto dedicare l’opera manifesto Spirit of Saint Louis alla comunità italiana di Saint Louis. Perché lo “spirito” che percorre tutte le opere in mostra, sono opere migranti che mettono radici negli occhi dei visitatori…”
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Anche l’Italia ha i suoi George e le sue Breonna: Razzismo e proteste antirazziste in Italia6/9/2020 DR. ELENA DALLA TORRE, PH.D. Lecturer of Italian, Washington University in St Louis Il 2 giugno l’Italia ha festeggiato il giorno della Repubblica, giorno che suggella l’entrata, 74 anni fa, in una nuova era di democrazia e di ricostruzione, segnata dal voto delle donne. Con la nascita della Repubblica, l’Italia si lasciava alle spalle la distruzione della guerra, ma anche la pesante eredità del Fascismo, con la sua ideologia razzista e colonialista. Ma lasciarsi alle spalle quel passato non dovrebbe significare dimenticare o ignorare gli effetti che tale ideologia ha avuto sulla cultura italiana contemporanea fino ad oggi.
I nati, come me, nella provincia italiana degli anni 70, hanno studiato poco, male o per niente il colonialismo italiano - che cominiciò ben prima del Ventennio fascista. Nella provincia italiana del Nord, i Neri erano Sammy Barbot, il conduttore del programma musicale Disco Ring, o il tenero Arnold della seria TV (per gli Americani “Different Strokes”), o il venditore ambulante di orologi, braccialetti e walk-men nelle strade della mia piccola città piemontese. All’inizio c’era curiosità nei confronti della diversità culturale ed etnica, dicono le scrittrici Igiaba Scego e Leila El Houssi, in una recente intervista pubblicata da L’Espresso. Poi dopo l’11 settembre, tutto è cambiato. Alla curiosità, dicono Scego ed E Houssi si è sostituito il sospetto e l’ostilità generalizzata. Fino al punto che quell’ostilità Scego se la sente addosso come un marchio. “Mi sento papabile al pestaggio” afferma la narratrice nel suo racconto “Salsicce”. E poi continua:” Ci accusano di avere la coda di paglia, di invocare il razzismo alla minima sciocchezza, ma vuoi sapere una cosa? Il razzismo ahimé non è una burla. Cazzo, vorrei che fosse una megaburla globale, una farsa di internet, ma la realtà è che se sei nero devi convivere con il sospetto”. (1) È invece bastato internet a far capire che il pestaggio di George Floyd non era farsa, ma l’ennesimo atto di linciaggio di un Afroamericano da parte di un poliziotto bianco. Quel video, diventato virale, ha scatenato una protesta globale. In questi giorni, migliaia di persone si stanno radunando nelle piazze italiane portando come grido di protesta antirazzista le ultime suffocate parole di George Floyd “I can’t breathe”. Il grido di protesta condensa il dolore e la rabbia contro un razzismo sistemico, che come un virus, distrugge le vite di coloro che, in tale sistema non contano o contano poco, ma sui cui corpi sfruttati tale sistema si fonda. Le proteste in Italia hanno il sapore di una rivoluzione pacifica, fatta da collettivi universitari e gruppi di attivisti impegnati su vari fronti dalle Sardine, all’Arcigay, da Non una di meno e Amnesty a Razzismo Brutta Storia e Abba Vive. La verità è che le proteste che si organizzano ovunque in Italia non riguardano solo quel che succede negli USA, a Ferguson o a Minneapolis. Le proteste italiane testimoniano di una presa di coscienza di un razzismo sistemico che è intorno a noi, che è dentro di noi. Tale razzismo ha una storia specifica, che si parli degli USA (genocidio delle popolazioni indigene, schiavitù, Jim Crow, politiche carcerarie, politiche di frontiera) o dell’Italia (politiche coloniali e politiche migratorie e di frontiera). Tuttavia, in quanto cittadini o immigrati bianchi, noi godiamo di un privilegio che non sempre mettiamo in discussione, diventando complici di meccanismi oppressivi. E così anche l’Italia ha i suoi George e le sue Breonna e i suoi Eric. Pensiamo al cimitero che è diventato il Mediterraneo, pieno di corpi senza vita, e senza nome. (2) Su di essi si giocano da anni le necropolitche di governi che alimentano la paura e l’odio dell’altro. Pensiamo alle aggressioni ai danni di Mohamed Ba, attore ed educatore senegalese, accoltellato nel maggio del 2009 nel centro di Milano. Pensiamo a Mor e Cheikh, immigrati dal Senegal e residenti a Firenze, colpiti nel dicembre 2011 mentre lavorano al mercato di San Lorenzo. (3) Pensiamo all’omicidio di un altro Senegalese, Idy Diene a Firenze nel marzo del 2018. Pensiamo ai braccianti africani che raccolgono pomodori in Puglia, comandati da un caporalato. Pensiamo alla prostituzione e allo sfruttamento delle donne nigeriane che fanno ormai parte della famigerata “tratta delle nigeraiane”. Ma pensiamo anche alle volte in cui in Italia si dice di non essere razzisti, ma poi si dà per scontato che ragazz* ner* o asiatic* che prendono il caffé accanto a noi, vengano da chissà quale Paese straniero, quando invece sono nat* nel nostro paesello. Lo recita Ghali nella sua canzone “Cara Italia” che è ormai diventata l’inno di un’Italia multiculturale e multietnica: “Quando mi dicono, vai a casa, io rispondo, sono già qua”. Ghali è la voce rap di una giovane generazione di Italiani, migliaia dei quali non sono, davanti alla legge, nemmeno cittadini italiani, poiché nati da genitori stranieri. Per loro, come documenta il regista italo-ghanese Fred Kuwornu non esiste ancora una legge di cittadinanza sulla base dello “ius soli” che garantisca continuità e stabilità. (4) Il fatto che il colore della pelle ti renda straniero a casa, o il pensare che la questione razziale sia inesistente (la presunta “racelessness” or “colorblindness”) hanno un fondamento razzista, come spiega anche la studiosa Fatima El Tayeb. (5) Esso si fonda sulla costruzione della bianchezza come presupposto delle nazioni europee. In Italia affonda le radici nell’idea fascista che i Neri italiani non esistevano, idea che divenne legge con il Manifesto della Razza, emanato da Mussolini nel 1938, proprio nel periodo in cui le unioni interraziali si moltiplicavano nella cosiddetta “Africa Italiana”. Eppure la storia americana tra 700 e 800 ci racconta che gli immigrati dal Sud Italia arrivarono in USA come persone libere bianche per poi essere considerati Neri perché svolgevano i lavori dei Neri nei campi di canna da zucchero, e vivevano nelle comunità Afroamericane della Louisiana. Per un certo periodo, gli Italiani scatenarono un vero e proprio panico che indusse gli Americani a delimitare il concetto di “bianchezza” e a decidere che gli Italiani non ne facevano parte. Questo panico anti-italiano fu soprattutto panico razzista che sfociò anche in episodi di linciaggio. (6) In questi giorni tutti ci chiediamo come possiamo AGIRE per contrastare il linguaggio del razzismo. C’è chi scende in piazza e marcia, c’è chi fa volontariato, c’è chi dona e fa raccolta fondi. C’è chi fa chiamate. C’è chi si informa e divulga. C’è chi legge. Da insegnante ed educatrice, ritengo che le nostre scelte educative e curriculari siano da sempre fondamentali per elaborare un linguaggio antirazzista e antisessista, e decolonizzare il curriculum. Negli anni di dottorato, ebbi incontri folgoranti con il cinema africano francofono, con l’energia poetica e visionaria di Audre Lorde, con le riflessioni sull’ontologia Nera di Frantz Fanon. Nei miei corsi le questioni di razza e di genere sono al centro della discussione. Ad esempio, le student* trovano nella vivacità provocatoria dei testi di Igiaba Scego un modo per riflettere e comparare questioni razziali e razzismo. Tuttavia accanto alla decolonizzazione del curriculum, occorre che le università continuino a diversificare il corpo studentesco e ad aumentare l’accesso ad un’istruzione di qualità per favorire una conversazione e un confronto reali tra student* e i loro diversi vissuti. Affinché gli studenti e noi tutti educatori facciamo dei nostri corpi, così diversi, un luogo di continua interrogazione, proprio come suggerisce Frantz Fanon, in chiusura di “Pelle nera, maschere bianche”. (1) Si veda la raccolta di racconti “Pecore nere” edita da Laterza dove Igiaba Scego. (2) Si vedano i documentari “Closed Sea” di Andrea Segre o “Fuocammare” di Gianfranco Rosi o il film “Mediterranea” di Jonas Carpignano. (3) Si veda il bellissimo documentario di Dagmawi Ymer, rifugiato datll’Etiopia, “Va’ Pensiero. Storie ambulanti” su http://www.va-pensiero.org/ (4) Si veda il documentario “18 ius soli. Il diritto di essere italiani.” (2012) (5) Si veda di Fatima El Tayeb, “European Others: Queering Ethnicity in Postcolonial Europe” (2011) (6) Si veda l’articolo di Brent Staples, sul New York Times dal titolo “How Italians Became White”. (2019) DR. REBECCA MESSBARGER, PH.D., Professor of Italian and Director of the Italian Department at Washington University in St Louis, Affiliate Professor of History, Art History, International and Area Studies, Performing Arts, and Women, Gender, and Sexuality Studies Art—literary, visual, performative—has served throughout history to translate the suffering experienced by individuals and societies during a catastrophic pandemic, as well to conceive and, indeed, to spur renewal of the individual and of the social order. The Medieval author Giovanni Boccaccio sets his masterwork, the Decameron (1351), in the midst of the mass mortality of the 1348 Bubonic Plague, which the author witnessed first-hand in his city of Florence. More than half of the citizenry, including Boccaccio’s father and stepmother, died of the contagion, which would extinguish the lives of 40-60% of the population of Europe. In the preface, the author explains to his target audience of women readers why he frames his collection of one hundred humorous, ribald, and tragic stories with this world-shattering event. “This horrid beginning will be to you even such as to wayfarers is a steep and rugged mountain, beyond which stretches a plain most fair and delectable, which the toil of the ascent and descent does but serve to render more agreeable to them; for, as the last degree of joy brings with it sorrow, so misery has ever its sequel of happiness.” The ghastly reality of the plague necessitates taking refuge in fiction. Boccaccio’s imagined brigata of young nobles flee the death and chaos in Florence for a villa in the countryside, where they gather in the garden to tell each other 100 stories (one apiece for 10 days) and are thus able to recreate through literary art the social bonds the plague had broken. For his actual readers, the grim historical backdrop is meant to heighten the pleasure of the narrative. As Giuseppe Mazzotta has noted, literature allows the reader “to quit the arena of history …and retreat to the garden” (1986). Far more than an evasion, however, it is meant to be a contemplative and renewing retreat. Boccaccio’s tales frequently center on the power of narrative itself, not only to reveal and to relieve the human predicament, but also to deceive. Boccaccio tacitly cautions that art is reflection and its rhetorical tools can serve to crystalize as well as to distort the truth. Devastating pandemics have compelled artists throughout history to reflect and to reflect on the experience. The British author Daniel Defoe and the Italian poet and novelist Alessandro Manzoni each wrote historical novels based on extensive archival research about the seventeenth-century plague pandemic that swept through Europe. In ways reminiscent of Boccaccio, both authors also explored the range of human reactions to the spread of deadly infection, mass death, social upheaval, isolation and quarantine, as well as the official response to the crisis by ruling state authorities and the church. In Defoe’s Journal of the Plague Year (1722) and Manzoni’s The Betrothed (in the original Italian I promessi sposi, 1827) fear looms as a contagion often more deadly than the plague itself. Manzoni, who had been schooled in Enlightenment ideals, includes a scene in his novel that evokes and condemns one of the most notorious examples in history of inhumanity and the abuse of state power in response to fear provoked by the pandemic. The vivid episode in the novel recalls the mass hysteria in Milan in 1630 that led to the false accusation, the pitiless public torture and execution, and desecration of the remains of two innocent men, Guglielmo Piazza and Giacomo Mora, whose fictitious crimes and glorified punishment were engraved by the Milanese State on a marble Column of Infamy that stood for 200 years. Through the art of the word in his international bestseller, Manzoni renounced and atoned for this injustice and, by illuminating it, sought to deter such future crimes against humanity. Artists have reckoned with and rectified endemic and new injustices that tend to show themselves with violent clarity during times of pandemic. The HIV/AIDS pandemic that began in the 1980s, provoked a radical rethinking of what constitutes art, its poetics, and its political, social, and moral imperatives. Theater, literature, and especially the visual arts confronted not only an elite arts consumer, but a more a general public with the health crisis and harrowing experience of those simultaneously most affected by the disease and most disregarded by government and public health authorities: gay men. Artists such as David Wojnarowicz, collaborators Anthony Aziz and Samuel Cucher, Keith Haring and Theresa Frare, among many others, translated their personal experiences of the ravages and loss of the disease into graphic images that in other times would have been hidden by the forces of social and political quarantine. Paradoxically, therefore, the wreckage and loss caused by pandemic have fomented insurgent artistic creation. Whole artistic movements, it has been argued, grew out of the individual and collective experience of pandemic. Elizabeth Outka in her book Viral Modernism (2019), has shown how the personal experience of sickness and loss during the 1918-1919 influenza gave birth to some of the most important literary works of the early 20th century, including T.S. Eliot’s Wasteland; William Butler Yeats’ The Second Coming; and Virginia Woolf’s Mrs Dalloway. Already, of course, the seeds of Covid-19 are bearing artistic fruit. Across the globe artists are crafting new narratives with words, images, objects, sounds, and all manner of technology to reflect the experience of our own catastrophic time. |
AuthorsGiovanna Leopardi Year
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