ELIZABETH BERNHARDT, PHD Dragon, Crab and Turtle è il nome di una nuova galleria d’arte a St. Louis. Si trova nel nostro “Midtown Design District” su Locust Street, non lontano dalla Saint Louis University. La galleria è aperta dall’anno scorso ed è stata fondata da una pittrice conosciuta, Katherine Bernhardt, mia sorella. Nel 2017 Katherine ha dipinto un enorme mural per il museo CAM (Contemporary Art Museum qui a St. Louis, 3750 Washington Blvd, e vedi https://camstl.org/exhibitions/katherine-bernhardt/). Dopo la mostra, ha deciso di tenere il lavoro ma le serviva uno spazio adeguato e quindi ha comprato un palazzo nei dintorni. La galleria è nata un pò per caso in quello stesso spazio. A causa del Covid, la galleria non ha un orario regolare ma rimane aperta di solito il sabato mattina dalle 10:30 a mezzogiorno e/o su appuntamento. L'indirizzo è 2814 Locust Street, St. Louis, Missouri 63130. Vi invitiamo a trovarci! Annunciamo i vernissage ed altro sui nostri account Instagram: @elizabethbernhardt @kbernhardt2014 @dragoncrabandturtle
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ELIZABETH BERNHARDT, PHD Nato a St. Louis nel 1995, Vaughn Davis Jr. è cresciuto con l'arte nella sua famiglia: sua nonna crea oggetti e decora la sua casa in modo eclettico e suo padre è sempre stato bravo a disegnare. Vaughn ha continuato a seguire questi stessi percorsi familiari e poi si è laureato in arte: ha ricevuto il suo BFA in scultura (con lode) presso la Webster University. Vaughn inizia il suo lavoro come la maggior parte dei pittori. Mescola colori e pittura su tela e spesso usa tinte tradizionali che sarebbero piaciute agli antichi maestri: rossi, blu, gialli, verdi, ecc. Ma a differenza di molti dei vecchi maestri, Vaughn ama dipingere le tele quando sono bagnate in modo che i pigmenti stingono e si espandano l'uno nell'altro. Gli piace anche dipingere entrambi i lati delle sue tele. Continuando a lavorare contro la secolare tradizione europea fissata nelle regole e nei regolamenti delle corporazioni, Vaughn continua il suo processo di decostruzione in numerose mode. Usa tele prive di cornici, quindi il suo lavoro non fa riferimento a quadrati fissi "intrappolati" in cornici (come la maggior parte delle opere su tele). Affligge la sua tela dipinta e sciolta con l'aiuto di coltelli, forbici, lame e le sue stesse mani. Taglia, strappa, imbratta e deforma le sue tele senza mai rimuovere alcun elemento del tessuto; quindi se le sue tele fossero di nuovo appiattite, sarebbero intatte e intere. Spiega che la sua arte è una reazione al passato, una reazione ai classici; è un'arte di protesta. Vaughn trasforma queste tele dipinte e strappate in sculture 3D che sfidano la compostezza. Spiega che strappa per “aprire” la tela, per liberare la sua planarità. Sembrano davvero libere. Spiega che il processo di decostruzione delle tele significa una ricerca ed una apertura del sé stesso. In questo modo, l'ho visto strappare alcuni dei suoi lavori che erano già stati appesi sui muri della galleria; ha detto che anche il suono dello strappo della tela è terapeutico. I prodotti finali sembrano essere dipinti e sculture allo stesso tempo. Inoltre le sue opere sono in movimento nel senso che sono in grado di evolversi. Ogni volta che vengono spostati, i pezzi assumono nuove forme e curve. a seconda di come vengono appesi. Poiché diventano così diversi ogni volta che vengono mostrati, Vaughn ha persino dato loro titoli diversi quando si trasformano in luoghi diversi. Lui lo chiama un lavoro “freestyle.” È affascinante pensare che la tela sia stata utilizzata dagli artisti da circa 500 anni. La tela fu resa popolare dai pittori veneziani nel Cinquecento (come Paolo Veronese,1528-1588) nel suo controverso ed enorme dipinto, Cena in casa di Levi), e il suo uso si diffuse poi da Venezia in tutta Europa e nel mondo dell'arte. A Venezia, la tela, realizzata con fili intrecciati della forte e resistente pianta di canapa coltivata sulla terraferma era tessuta localmente e fu prontamente disponibile per i marinai per le vele delle loro navi. Fu successivamente adottata da pittori pratici per grandi composizioni. La tela pesa molto meno del pannello in legno, non si deforma come il legno per l’umidità locale, è più facile da spostare rispetto al pannello poiché è arrotolabile, costa meno del pannello e non cade dai muri come fanno gli intonaci bagnati o gli affreschi nelle case costruite letteralmente nell'acqua intorno ad una laguna. È affascinante vedere Vaughn, un artista del 21 ° secolo in posto come St. Louis, riprendere questo stesso materiale storico nel suo lavoro. La tela di Veronese, che era commissionata per rappresentare l'Ultima Cena, lo mise nei guai con l'Inquisizione a causa di tanti dettagli di vita reale aggiunti ad essa: golosi, ubriaconi, ricchi patrizi, soldati protestanti tedeschi, cani e gatti addormentati, nani, servi, un uomo con il naso sanguinante e altri elementi potenzialmente presenti a una cena aristocratica—cose del tutto estranee ad una rappresentazione più tradizionale dell'Ultima Cena. La tela di Veronese è quindi legata alla vita reale e ad una natura artistica ribelle. In modi diversi, le tele di Vaughn sono legate a questi due stessi concetti. Il lavoro di Vaughn è anche legato a quello di Sam Gilliam (nato 1933) che ha dipinto enormi tele colorate e le ha appese in modo liberatorio. Le tele di Gilliam sono considerate sculture eppure sono spesso modellate e formate più regolarmente rispetto alle opere di Vaughn. Il lavoro di Vaughn ricorda anche le famose tele tagliate di Lucio Fontana (1899-1968), nato in Argentina ma tornato in Italia dove ha contribuito a cambiare le tradizioni secolari della pittura italiana. Fontana ha cercato di sfuggire dalla "prigione" della superficie piatta del quadro per esplorare il movimento, il tempo e lo spazio. Vaughn a volte inizia a tagliare come Fontana, ma fa un ulteriore passo avanti con lo strappo, la modellatura e le installazioni irregolari. Vaughn è anche legato al gruppo Gutai (具体 美術 協会) di artisti giapponesi del dopoguerra il cui lavoro sperimentale è profondamente legato alla libertà e alla liberazione. Questo gruppo degli anni '50 si è concentrato sulla sperimentazione, sulla performance e sulla liberazione del colore mentre Vaughn ha trovato una strada leggermente diversa concentrandosi sulla liberazione della tela da se stessa.
Infine, l'opera di Vaughn ricorda lontanamente un altro dei più grandi artisti e contestatori sociali: Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610). Caravaggio amava spingere al limite le sue tele, anche se ai suoi tempi spingerle oltre la norma significava spesso raffigurare un realismo intenso e crudo; un ottimo esempio viene in mente nella sua Morte della Vergine ora al Louvre. Veronese e Caravaggio, tra tutti gli artisti che hanno impiegato la tela per scelta, sarebbero affascinati nel vedere come Vaughn usa e libera la stessa materia così come gli italiani pre-moderni che l'hanno usata potrebbero essere affascinati nell'apprendere che la tela rimane popolare tra gli artisti oltre oceano del 21° secolo. Vaughn ha avuto molta esperienza in cose diverse benché abbia solo 25 anni. Ha lavorato in negozi di abbigliamento e presso un bar, ha studiato all'estero a Vienna e sta valutando se fare un MFA al Royal College di Londra. Suona la tromba ed è un gestore d'arte professionista. Gli piace andare in giro nei quartieri di St. Louis sul suo longboard. Fa parte di una galleria che segue il "modello di Filadelfia" chiamata Monaco su Cherokee Street. In futuro, continuerà un processo di decostruzione legata all'uso della tela e / o della pittura? Continuerà a decostruire l'arte prima di ricostruirla? Continuerà a creare pezzi che attraversano i generi e che rimarranno contemporaneamente dipinti e sculture? Ha davanti a sé un'entusiasmante strada da percorrere. ELIZABETH BERNHARDT, PHD Born and raised in St. Louis, Vaughn Davis Jr. (b. 1995) grew up with art in his family: his grandmother makes things and decorates in eclectic ways and his father has always been great at drawing. Vaughn began along these same family lines and then worked toward a formal art degree: he received his BFA in Sculpture (with honors) from Webster University. Vaughn begins his work like most painters. He mixes colors and paints on canvas, and he often uses traditional tints that would have appealed to Old Masters: reds, blues, yellows, greens, etc. But unlike many of the great old-schoolers, Vaughn likes to paint the canvases when they are wet so that the pigments bleed and expand into one another. He also likes to paint both sides of his canvas. Continuing work against the centuries-old European tradition fixed in guild rules and regulations, Vaughn continues his deconstruction process in numerous fashions. He uses canvas free from frames so his work does not reference fixed squares "trapped" in frames (like most art employing the use of canvas). He distresses the loose painted canvas itself with the help of knives, scissors, blades and his own two hands. He cuts, tears, rips, smushes and warps his canvases yet without ever removing any element of the canvas; so if his canvases were flattened out, they would be intact and whole. He explains that his art is a reaction to the past, a reaction to the Classics; it is an art of protest. Vaughn makes these painted and ripped canvases turn into 3D sculptures that detest restraint. He explains that he rips and tears in order to "open up" the canvas, to release flatness and to free them. They really do appear free. He explains that the deconstruction process signifies the search and the opening up of the self. Along these lines, I watched him tear some of his work that had already been hung in the gallery; he said that even the sound of the canvas ripping is therapeutic. The final products appear to be paintings and sculptures “in one.” Furthermore, his works are in movement in the sense that they are able to evolve. Each time they are moved, the pieces takes on new forms, curves and shapes depending on how they are hung—and because they become so different each time they are displayed, Vaughn has even given them different titles as they transform themselves in different locations. He calls it freestyle work. It is fascinating to think that canvas has been used by artists for about 500 years now. Canvas was popularised by Venetian painters in the Cinquecento (like Paolo Veronese (1528-1588) in his controversial and enormous painting, Feast in the House of Levi), and the use of it spread across Europe and through the art world. In Venice, canvas—made from weaving strands of the strong and resistant canapa plant—was grown on the terraferma, woven locally, and readily available to sailors for their ship sails but later adopted by practical painters for large-scale compositions. Canvas weighs a lot less than wood panel, it does not warp like wood in the intense local humidity, it is easier to move around than panel since it can be rolled up, it costs less than panel, and it does not fall off of walls like wet plaster or frescoes does in homes built in water around a lagoon. It is fascinating to see Vaughn, a 21st c. artist from St. Louis, take up this same historical material in his work. Veronese’s canvas, commissioned to represent the Last Supper, got him in trouble with the Inquisition because of so many real-life details added to it: gluttons, drunkards, wealthy patricians, German Protestant soldiers, sleeping cats and dogs, dwarves, servants, a man with a bloody nose, and other elements potentially present at an aristocratic dinner party—things thoroughly extraneous to a more traditional depiction of the Last Supper. Veronese’s canvas is therefore tied to real life and to a rebellious artistic nature. In different fashions, Vaughn’s canvas is tied to those two same concepts. Vaughn’s work is also related to that of Sam Gilliam (b. 1933) who has painted enormous colourful canvases and hung them in liberating ways. Gilliam’s canvases stand as sculptures yet they are often more regularly patterned and formed when compared to Vaughn’s pieces. Vaughn’s work also recalls the famous slit-up canvases of Lucio Fontana (1899-1968) who was born in Argentina but returned to Italia where he helped deconstruct the centuries-old traditions behind Italian painting. Fontana sought to escape the “prison” of the flat picture surface to explore movement, time, and space. Vaughn sometimes begins to cut like Fontana yet goes a step further with irregular ripping, shaping and installing. Vaughn is also related to the Gutai group (具体美術協会) of post-war Japanese artists whose experimental work is deeply tied to freedom and liberation. This 1950s group focused on experimentation, on performance, and on liberating color—while Vaughn has found a slightly different path as he focuses on liberating the canvas from itself.
Lastly, Vaughn’s work distantly recalls another of Italy’s greatest artists and social protestors: Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610). Caravaggio loved pushing his canvases to the limit—although in his time pushing them beyond the acceptable norm often meant depicting intense and crude realism; a great example comes to mind in his Death of the Virgin now in the Louvre. Veronese and Caravaggio—among all artists who have employed canvas as their medium of choice—would be fascinated to see how Vaughn uses and liberates canvas—and the early modern Italians who used it might also be fascinated to learn that canvas remains popular with artists into the 21st century. Vaughn has had a lot of experience doing different things—although he is a mere 25 years old. He has worked in clothing stores and at a coffee house, he studied abroad in Vienna and is considering an MFA at the Royal College of London. He plays the trumpet and is a professional art handler. He likes to go cruising around St. Louis neighbourhoods on his longboard. He is part of a “Philadelphia model” gallery called Monaco on Cherokee Street. Into the future, will he continue a deconstruction process related to the use of canvas and/or painting? Will he continue to deconstruct art before perhaps re-constructing it from scratch? Will he continue to create pieces that cross genres and remain simultaneously paintings and sculptures? He has an exciting open road ahead. Villa Antonio is a winery located in the beautiful rolling hills of south-eastern Missouri. The wines they produce are hand-crafted using Northern Italian traditions from varieties of grapes solely grown on their property in Hillsboro, Missouri. Villa Antonio was founded by the late Antonio Polesel, a native of Treviso, Italy. Antonio's wife, Fernanda Tarticchio Polesel, a native of Istria, has been the heart and soul of the kitchen at Villa Antonio since its founding. Current owners are Thomas Polesel and his wife Adriana. Thomas, the son of Antonio Polesel, carries forward his family legacy adhering to the same age-old traditions of traditional wine-making. The Italian Community of St Louis thanks the Polesel family for their generous sponsorship. We look forward to creating many memorable experiences together.
For more information on the winery, please visit their website. Summer hours (May - September): Daily 11AM - 5PM, Fridays 11AM - 9PM; Winter hours (October - April): Daily 11AM - 5PM Elizabeth Bernhardt, PhD, intervista Danilo Caracciolo, regista a Bologna Come hai deciso di fare il tuo mestiere e come hai imparato a fare cinema? Da bambino ero un grande fruitore di televisione, quando ancora la tv pubblica era di servizio e non commerciale. C’era un’altissima qualità e, in particolare, la mia generazione veniva forgiata dai documentari di Folco Quilici e dagli sceneggiati, l’equivalente delle odierne series. Essi vantavano la presenza di grandi attori provenienti dal teatro di livello nazionale e internazionale, come Alberto Lupo, Ugo Pagliai, Gian Maria Volontè, Valeria Moriconi, Bekim Fehmiu, Irene Papas, Enrico Maria Salerno, Gino Cervi, Lina Volonghi, Nino Castelnuovo, solo per citarne alcuni. Molti autori e registi erano, inoltre, figure di altissimo livello culturale, che si sentivano investiti del dovere deontologico di diffondere valori e principi in cui si riconosceva l’Italia del dopoguerra, come la Costituzione, la Resistenza e l’antifascismo. Ad esempio, quando ci si avvicinava alla celebrazione del 25 aprile, la tv pubblica trasmetteva decine di film, documentari e sceneggiati che avevano come tema le vicende della Resistenza e della lotta al nazi-fascismo, cosa inimmaginabile oggi. Le giovani generazioni di allora potevano addentrarsi in quell’esperienza grazie alla splendida dialettica narrativa di maestri come Lizzani, Rosi, Risi, Germi, De Sica e tanti altri. Diveniva l’atto di fondazione della propria coscienza critica, il cinema e la tv contribuivano a prendere una posizione, indicando, senza filtri, quale fosse quella sbagliata. Al pari della letteratura, i media sancivano la costruzione di consapevolezze, inculturazione. Con l’avvento delle tv commerciali negli anni 80, tutto ciò è tramontato e si è aperto il baratro liberista responsabile della deriva sub-culturale del presente, un presente in cui la cultura è intesa più come un ostacolo che come un prerequisito indispensabile per lo sviluppo di una società più equa, responsabile ed ecosostenibile. L’audiovisivo è stato per me una scelta inaspettata, dettata più dall’ impeto creativo che altro. Ho una formazione artistica, afferente alla scenografia teatrale ed alle arti figurative. L’urgenza narrativa ha fatto il resto. Nel 1997, sentì, infatti l’impulso di rappresentare ciò che sentivo e vedevo con un nuovo strumento: la videocamera. E i risultati furono immediati, perché il primo cortometraggio che realizzammo (“Tragos”) ottenne dei riconoscimenti. Da quel momento, capii che potevo addentrarmi in quel mondo autoriale, pur non avendo frequentato il Dams. La passione e la dedizione per ciò in cui crediamo, produce risultati sorprendenti e credo che tutti dovrebbero avere la possibilità nell’unica vita che hanno a disposizione, a maggior ragione i più svantaggiati, di abbandonare gli steccati, come li definisce Ken Wilber, per dare spazio alle proprie aspirazioni concedendosi l’opportunità di osare. Hai avuto un maestro particolarmente importante per tuo cammino? Com’era? Purtroppo non ho avuto la fortuna di avere un maestro, Mi sarebbe piaciuto molto poter iniziare come assistente in una produzione diretta da un grande regista, ma ero obbligato a lavorare per sopravvivere ed ho dovuto rinunciare a questa opportunità. All’inzio, la mia scuola è stata l’autoformazione, unitamente all’incontro stimolante con molte persone di spessore, che hanno contribuito ad ottimizzare il mio sguardo, ad affinarlo. Da politici e storici illuminati, passando per registi, autori, maestranze e attori. Tutti coloro che ho incontrato mi hanno insegnato qualcosa. Poi, ovviamente, le esperienze lavorative hanno fatto il resto, come l’attività di comunicazione istituzionale e video giornalismo, la formazione che ho condotto come docente sull’audiovisivo per anni, l’università. Noto che lavori molto su argomenti bolognesi—quanto è importante il luogo in cui vivi per il tuo lavoro? Raccontaci la tua storia. Ti racconto un aneddoto: molti anni fa, in occasione di una presentazione al cinema di un mio lavoro sulla Resistenza bolognese, un critico cinematografico affermò pubblicamente: “sorprende che queste vicende bolognesi siano state raccontate, oggi, da un regista napoletano”. Sia pur lusingato per il primato, contestai la sua affermazione, dichiarando che “i temi della Resistenza non hanno confini e sono, più di ogni altro valore, universali e non hanno nemmeno un tempo prestabilito per essere rappresentati in quanto eterni. Il trasferimento a Bologna non è stato solo dettato dall’opportunità di lasciare il sud, che non offriva prospettive, ma anche da sentimenti e aspettative politiche e culturali. Una scelta dettata anche da contaminazioni familiari. Mio zio si trasferì in questa regione negli anni 70 per affinità generazionale e culturale, sospinto dagli ideali di quell’epoca, in cui Bologna svolgeva un ruolo centrale nel panorama politico e culturale con una chiara connotazione a sinistra. Mi esortava a fargli visita e, durante le chiusure scolastiche estive ed invernali, lo raggiungevo da Napoli, dove vivevo. In queste occasioni, mi trasmetteva i suoi valori e il suo immaginario di società ideale che, a suo parere, solo a Bologna si sarebbe potuto concretizzare, compartecipando attivamente ad un progetto alternativo di società. Negli anni ebbi modo di conoscere amici, entrare gradualmente nel tessuto sociale fino al trasferimento definitivo nel 1987. Questa città è stata un contenitore sperimentale per un modello fattivo di società, non solo utopistico. Gli amministratori illuminati che provenivano da venti anni di dittatura fascista e che presero parte alla Lotta di Liberazione, in primis il sindaco Giuseppe Dozza in carica dal 1945 al 1966, avevano dato vita ad un welfare di impostazione scandinava, socialdemocratico, piuttosto che rigidamente socialista. Difatti negli anni 60 il modello bolognese fu studiato negli Stati Uniti e oltremanica perché veniva riconosciuto universalmente giusto. In un articolo del New York Times del 1961, l’inviato riconobbe a Dozza il ruolo di amministratore capace e umano, persino per i suoi nemici, lodandolo per la ricostruzione morale e materiale della città e per la creazione di un welfare avveniristico unico al mondo. Il cronista statunitense non si capacitava, affermando: “com’è possibile che Bologna è così democraticamente ben amministrata se il sindaco Dozza è un comunista ortodosso?” Hai trovato argomenti molto particolari per i tuoi documentari. Come si potrebbe categorizzare il corpo del tuo lavoro? (il lavoro sul sindaco a Dozza; la storia delle mondine; la storia della fondatrice dei nidi comunali; le case del popolo in Italia ed altrove…) Insomma come trovi i tuoi soggetti ed argomenti? Decisi di approcciare al documentario per dovere civile. Lo consideravo un atto di militanza, visto che le mutazioni storico-sociali avevano lasciato un vuoto identificativo in chi, come me, si collocava in una specifica area politica e culturale. Dunque, ho sentito l’esigenza di dare il mio contributo alla necessaria opera di tutela della memoria, con altri strumenti. Questa è una regione che ha pagato caramente l’avversione al nazi-fascismo durante la seconda guerra mondiale, non si potevano lasciar cadere nell’oblio le vicende, spesso drammatiche, che hanno segnato la storia di questo territorio e di quelle generazioni. Ho voluto raccontare la storia sociale di riscatto che è nel dna dell’Emilia Romagna, delle sue genti che un tempo si riconoscevano nel cooperativismo e nell’unione di intenti, nella prossimità e solidarietà, nel sacrificio contro le ingiustizie e nella lotta per i diritti. Purtroppo un abisso separa quella stagione dal presente. Hai fatto tanti film su momenti difficili a Bologna (la Resistenza, la seconda guerra mondiale, ecc.) Quale consideri il più importante? Parlaci un po' della tua opera, per favore. Sono affezionato a tutte le mie opere. Quello che mi gratifica di più è il ricordo dell’adesione del pubblico in determinate occasioni, la commozione e l’indignazione, quel senso comunitario partecipato, i battiti di mani ad accompagnare le colonne sonore, ad esempio su brani epocali come “Stalingrado” o per le meravigliose melodie di uno dei miei migliori amici, Roberto “Sacco” Secchi, prematuramente scomparso 10 anni fa e che mi manca molto. Ricordo che i miei docufilm dedicati ai temi resistenziali e sociali, scaturivano un grande entusiasmo in città, sono stati occasione di coesione tra più realtà culturali. Ad esempio, quando c’era una proiezione, gli spazi antistanti ai cinema si riempivano di associazioni, gruppi e bande musicali, rappresentanze delle istanze sane della città, tanta gente festante e partecipe che veniva ad offrire il proprio contributo alla giornata e ai protagonisti presenti in sala, spesso partigiani, con balli, danze, cori, poesie. Una dimensione compartecipata popolare che rimpiango. Com’è la cultura del cinema a Bologna? Com’è il programma del DAMS e delle scuole di cinema bolognesi? Se uno volesse imparare a fare il tuo mestiere, dove si può imparare a fare cinema a Bologna? E com’è la situazione a Roma rispetto a Bologna per fare cinema oggi? La centralità di Bologna nel panorama produttivo nazionale è nota, ma il settore vive un grande momento di difficoltà. La pandemia ha ingenerato una crisi senza precedenti e molte realtà stanno scomparendo. La virata verso l’inevitabile distribuzione on demand, che per certi versi è anche portatrice di nuovi modelli di fruizione cui si dovrà necessariamente volgere lo sguardo per il futuro, ha modificato l’attenzione nei confronti del documentario. Nascendo sempre più spesso da grandi sforzi produttivi “dal basso”, il documentario occupa oramai un settore di nicchia, che si distingue dalle grandi produzioni seriali dell’indotto industriale, peraltro generalmente poco contenutistiche e molto orientate verso l’intrattenimento. Ovviamente per le piccole società di produzione sul territorio rappresenta la fine, se le istituzioni deputate al sostegno culturale ed economico non tornano presto a rivolgere la giusta attenzione nei confronti del settore. A Roma la situazione è diversa, come da sempre. Si innesta in un contesto industriale consolidato e vicino ai luoghi di potere della politica. La natura corporativa e lobbista del nostro paese sfavorisce “le periferie”. A chi vorrebbe intraprendere questo mestiere non saprei francamente cosa consigliare, soprattutto in questo momento storico. Di certo quello che suggerirei ad un giovane lungimirante è di andare all’estero. In Francia, ad esempio, o più in generale nel nord Europa. Hai un/una regista preferito? Hai qualche film preferito? Amo la cinematografia sociale italiana degli anni 60. Il mio regista preferito è Dino Risi in coppia con il grande sceneggiatore Rodolfo Sonego. Assieme hanno dato vita a quello che reputo il più bel film italiano di sempre, “Una vita difficile” del 1961, una vera intuizione amara e profetica di ciò che sarebbe stato il futuro in Italia dopo il boom economico, con protagonista un inedito Alberto Sordi (storicamente anticomunista) nei panni del militante di sinistra Silvio Magnozzi, partigiano, giornalista idealista, militante, i cui sogni e la cui lealtà vengono stritolati dalla graduale ed arrembante arroganza della società dei consumi post bellica. Hai fatto il regista di tante cose (serie TV, documentari, cortometraggi, ecc.)—quale genere preferisci?
Scelgo ancora una volta, e nonostante tutto, il documentario. Credo rappresenti la dimensione più intima e umana in cui un autore può esprimersi. E’ ancora il luogo in cui si generano rapporti. Pensa a cosa rappresenta per un autore, ad esempio, lavorare su un doc biografico, pensa al delicato compito che gli viene affidato dal protagonista, e cioè quello di entrare in punta di piedi nella sua vita, nella sua storia, nelle sue memorie. In questo iter, c’è un momento in particolare che ripaga tutti i sacrifici: quando avverto che si è instaurato un patto fiduciario tra cronista e testimone. Solo allora mi rendo conto che è avvenuta una mutazione importante, un’investitura catartica e dunque devo andare fino in fondo. Ci si sente un po’ come “il custode del tempio”. Il documentario è deontologico, l’etica di fondo è innegabile. Che sia di osservazione, narrazione, docufiction, storico o sociale, il cinema del reale resta la più grande opportunità per divulgare conoscenza, fornendo gli strumenti critici necessari contro le omologazioni. E a cose stai lavorando adesso durante questo periodo difficile di Covid? Sto lavorando allo sviluppo (avanzato) di 4 progetti in attesa della ripartenza post-pandemica: “Cacciatori di storia” (Popcultfilm), una docu serie sulla comunità dei cercatori di reperti bellici che con il metal detector si addentrano sulla line Gotica, il fronte della WW2 nel 44-45 tra Toscana ed Emilia; “Gugliemo l’inventore” (Popcultfilm), una serie animata per bambini e ragazzi che narra le vicende dello scienziato Guglielmo Marconi durante la sua infanzia e adolescenza; “L’officina dei corpi” (Popcultfilm), un documentario sulla storia della chirurgia ortopedica dell’istituto Rizzoli e dei suoi illuminati protagonisti negli anni della prima guerra mondiale; il documentario biografico su Edo Ansaloni, creatore del “Memoriale della Libertà” e cronista, con le sue cineriprese e fotografie, delle immagini più significative della Liberazione di Bologna del 21 aprile 1945 (Videomagazine). Dove si potrebbero trovare/vedere i tuoi film? Grazie! I miei lavori sono disponibili in consultazione e prestito gratuito presso: - tutte le biblioteche e mediateche del Servizio Bibliotecario Nazionale OPAC SBN (www.opac.sbn.it) cercando nel database con nome e cognome del sottoscritto; - in distribuzione home video da Balboni video di Bologna (www.balbonivideo.com); - inoltre dall’anno scorso, vista la situazione pandemica, abbiamo deciso di rendere pubblici e gratuiti “Il sindaco, storia di un’utopia realizzata” sul sindaco Giuseppe Dozza, con Ivano Marescotti del 2015 al link: www.docacasa.it/doc-a-casa/il-sindaco/ ; -“Lame, la porta della memoria” del 2004 per il sessantesimo della Liberazione al link e su youtube al link - “1 Map x 2” sul giro del mondo di Tartarini e Monetti nel 1957 su Ducati 175 (disponibile a pagamento al link: www.vimeo.com/ondemand/1mappaper2) Elizabeth Bernhardt, PhD, intervista Betty Zanelli, Visual Artist e docente di Decorazione e Fashion Design presso l'Accademia di Belle Arti di Bologna Tanti anni fa ho incontrato un’artista molto interessante in Via delle Belle Arti, quando abitavo di fronte a lei e molto vicino alla Pinacoteca di Bologna. Durante gli anni siamo diventate amiche e visto che tutta la sua vita si svolge nel mondo d'arte, ho pensato che sarebbe bellissimo conoscerla meglio qui! Ecco alcune domande. Da quando hai saputo che volevi diventare artista? Hai altri artisti in famiglia? Come sei riuscita a realizzare il tuo desiderio in questo campo? Ho sempre saputo di voler diventare un’artista, anche se da bambina non mi era ancora chiaro quale disciplina mi piacesse di più, tra il disegno, la scultura e la fotografia. Quello che posso dirti è che sono stata una fotografa molto precoce. Mio padre era giornalista, critico cinematografico, con una grandissima passione per il cinema e per la fotografia. Aveva sempre con sé la sua Rollei che gli chiedevo di poter usare fin dalla più tenera età. Mi regalò quindi una macchina fotografica tutta per me, una AGFA ISO-RAPID I che ho amato moltissimo. Ho iniziato a fotografare quindi a sei anni e non ho mai smesso… ora uso una reflex digitale Nikon e una Lumix Panasonic LX100. Per rispondere alla domanda su come sono riuscita a realizzare il mio desiderio, devo dire che non è stato facile. Ho cambiato percorso di studi per iscrivermi all’Accademia di Belle Arti di Bologna, al corso di Pittura. E non ho mai smesso di pensare ogni giorno in termini di creazione. Mi chiedo sempre “what’s next?” e trovo sempre nuovi materiali, diverse suggestioni e scenari, nuovi stimoli. L’artista lavora sempre, anche quando nel suo studio guarda il muro bianco, o una crepa del pavimento. Cosa ti piace creare? Dove si può vedere il tuo lavoro in mostra (o magari online in questo momento particolare)? Lavoro per associazioni di idee, per stratificazioni: un lavoro sulla memoria e sul tempo. Ho un forte interesse per quello che è dimenticato dall’uomo, oggetti e luoghi abbandonati, coperti da una patina di oblio. Uso media diversi, disegno e fotografia soprattutto, ma quando ne ho la possibilità preferisco un’opera di tipo installativo perché mi interessa molto lavorare sullo spazio e presentare un racconto completo, che preferibilmente includa vari linguaggi, fotografia, oggetti, disegno e pittura, quest’ultima è spesso integrata alla fotografia, diventando così una nuova immagine alterata dalle sovrapposizioni in un inganno ottico tra ciò che è vero e ciò che è dipinto. Una mia opera è in mostra in questo periodo presso il palazzo dell’Assemblea Regionale a Bologna, ma il mio lavoro si può vedere sul mio sito www.bettyzanelli.com o sulla mia pagina instagram. Dove insegni e che tipo d’arte ti piace insegnare? Insegno all’Accademia di Belle Arti di Bologna dove sono docente di Decorazione e Fashion Design. Insegnare mi piace molto, è un dialogo continuo con i giovani molto stimolante. La cosa che mi interessa di più è trasmettere agli studenti la passione per l’arte e far nascere la fascinazione. Trasmettere la forza rivoluzionaria che rappresenta. Per me è come passare il testimone ai giovani artisti. La città di Bologna e la cultura bolognese influiscono sul tuo lavoro? Come? Qui si apre un capitolo difficile. Credo di avere un rapporto di odio/amore con Bologna: cerco sempre di lasciarla, più sono lontana più sono felice, ma poi non so come, vi faccio ritorno. Ho cominciato a viaggiare assieme alla mia famiglia molto presto. Mio padre era inviato a Parigi e quindi da bambina ho passato là molto tempo. Poi abbiamo iniziato a seguirlo anche ai festival cinematografici e abbiamo avuto la possibilità di vedere un po’ di mondo. E così, appena ho potuto, me ne sono andata. L’occasione si è presentata con una mostra al PS122 di New York. Sono partita per New York giovanissima, avevo appena finito l’Accademia. Era la metà degli anni ’80 e ho trovato una città incredibile, così traboccante di creatività, di arte ad ogni angolo di strada, di opere d’arte grandiose dentro a meravigliosi musei accanto alle piccole gallerie alternative del Lower East Side. Una sensazione elettrizzante di libertà, di possibilità di creare qualsiasi cosa, di essere qualsiasi cosa. Insomma, il sogno di ogni giovane artista. Avevo trovato il luogo più lontano da Bologna, non solo geograficamente, ma anche concettualmente. Per questo ed altro, a New York mi sono fermata per 8 anni e ho lavorato lì come artista, un pezzo di vita molto importante per la mia crescita personale, utile per la mia formazione, la mia creatività e la mia professionalità. Quindi per rispondere alla tua domanda, direi proprio di no, Bologna non influisce sul mio lavoro. New York prima e Berlino in seguito, hanno influenzato il mio lavoro. Bologna rappresenta altre cose, per me: è una culla accogliente, una madre rassicurante; è l’aria dolce di casa, delle sere sui colli, del cinema in piazza, degli amici fidati. Hai un’opera d’arte preferita a Bologna oppure magari un artista bolognese preferito? A chi visitasse Bologna per la prima volta, cosa consiglieresti di vedere? Bologna è una città bellissima, ricca di monumenti e opere d’arte a ogni angolo di strada. Suggerisco in particolare di visitare le chiese, numerosissime a Bologna, ricche di opere meravigliose, anche dove meno te l’aspetti. Per quanto riguarda la mia opera d’arte preferita a Bologna, ti direi la Basilica di Santo Stefano, detta “Le Sette Chiese”, una serie di chiese incastrate una dentro l’altra, in cui si può godere di veri gioielli di epoca romanica. Anche per trovare i miei artisti bolognesi preferiti bisogna andare un po’ indietro nel tempo: sono due donne, la pittrice Lavinia Fontana (1552-1614) e Properzia de’ Rossi (1490 circa-1530), una straordinaria scultrice troppo spesso dimenticata. |
AuthorsGiovanna Leopardi Year
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September 2024
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