Elizabeth Bernhardt, PhD, intervista Danilo Caracciolo, regista a Bologna Come hai deciso di fare il tuo mestiere e come hai imparato a fare cinema? Da bambino ero un grande fruitore di televisione, quando ancora la tv pubblica era di servizio e non commerciale. C’era un’altissima qualità e, in particolare, la mia generazione veniva forgiata dai documentari di Folco Quilici e dagli sceneggiati, l’equivalente delle odierne series. Essi vantavano la presenza di grandi attori provenienti dal teatro di livello nazionale e internazionale, come Alberto Lupo, Ugo Pagliai, Gian Maria Volontè, Valeria Moriconi, Bekim Fehmiu, Irene Papas, Enrico Maria Salerno, Gino Cervi, Lina Volonghi, Nino Castelnuovo, solo per citarne alcuni. Molti autori e registi erano, inoltre, figure di altissimo livello culturale, che si sentivano investiti del dovere deontologico di diffondere valori e principi in cui si riconosceva l’Italia del dopoguerra, come la Costituzione, la Resistenza e l’antifascismo. Ad esempio, quando ci si avvicinava alla celebrazione del 25 aprile, la tv pubblica trasmetteva decine di film, documentari e sceneggiati che avevano come tema le vicende della Resistenza e della lotta al nazi-fascismo, cosa inimmaginabile oggi. Le giovani generazioni di allora potevano addentrarsi in quell’esperienza grazie alla splendida dialettica narrativa di maestri come Lizzani, Rosi, Risi, Germi, De Sica e tanti altri. Diveniva l’atto di fondazione della propria coscienza critica, il cinema e la tv contribuivano a prendere una posizione, indicando, senza filtri, quale fosse quella sbagliata. Al pari della letteratura, i media sancivano la costruzione di consapevolezze, inculturazione. Con l’avvento delle tv commerciali negli anni 80, tutto ciò è tramontato e si è aperto il baratro liberista responsabile della deriva sub-culturale del presente, un presente in cui la cultura è intesa più come un ostacolo che come un prerequisito indispensabile per lo sviluppo di una società più equa, responsabile ed ecosostenibile. L’audiovisivo è stato per me una scelta inaspettata, dettata più dall’ impeto creativo che altro. Ho una formazione artistica, afferente alla scenografia teatrale ed alle arti figurative. L’urgenza narrativa ha fatto il resto. Nel 1997, sentì, infatti l’impulso di rappresentare ciò che sentivo e vedevo con un nuovo strumento: la videocamera. E i risultati furono immediati, perché il primo cortometraggio che realizzammo (“Tragos”) ottenne dei riconoscimenti. Da quel momento, capii che potevo addentrarmi in quel mondo autoriale, pur non avendo frequentato il Dams. La passione e la dedizione per ciò in cui crediamo, produce risultati sorprendenti e credo che tutti dovrebbero avere la possibilità nell’unica vita che hanno a disposizione, a maggior ragione i più svantaggiati, di abbandonare gli steccati, come li definisce Ken Wilber, per dare spazio alle proprie aspirazioni concedendosi l’opportunità di osare. Hai avuto un maestro particolarmente importante per tuo cammino? Com’era? Purtroppo non ho avuto la fortuna di avere un maestro, Mi sarebbe piaciuto molto poter iniziare come assistente in una produzione diretta da un grande regista, ma ero obbligato a lavorare per sopravvivere ed ho dovuto rinunciare a questa opportunità. All’inzio, la mia scuola è stata l’autoformazione, unitamente all’incontro stimolante con molte persone di spessore, che hanno contribuito ad ottimizzare il mio sguardo, ad affinarlo. Da politici e storici illuminati, passando per registi, autori, maestranze e attori. Tutti coloro che ho incontrato mi hanno insegnato qualcosa. Poi, ovviamente, le esperienze lavorative hanno fatto il resto, come l’attività di comunicazione istituzionale e video giornalismo, la formazione che ho condotto come docente sull’audiovisivo per anni, l’università. Noto che lavori molto su argomenti bolognesi—quanto è importante il luogo in cui vivi per il tuo lavoro? Raccontaci la tua storia. Ti racconto un aneddoto: molti anni fa, in occasione di una presentazione al cinema di un mio lavoro sulla Resistenza bolognese, un critico cinematografico affermò pubblicamente: “sorprende che queste vicende bolognesi siano state raccontate, oggi, da un regista napoletano”. Sia pur lusingato per il primato, contestai la sua affermazione, dichiarando che “i temi della Resistenza non hanno confini e sono, più di ogni altro valore, universali e non hanno nemmeno un tempo prestabilito per essere rappresentati in quanto eterni. Il trasferimento a Bologna non è stato solo dettato dall’opportunità di lasciare il sud, che non offriva prospettive, ma anche da sentimenti e aspettative politiche e culturali. Una scelta dettata anche da contaminazioni familiari. Mio zio si trasferì in questa regione negli anni 70 per affinità generazionale e culturale, sospinto dagli ideali di quell’epoca, in cui Bologna svolgeva un ruolo centrale nel panorama politico e culturale con una chiara connotazione a sinistra. Mi esortava a fargli visita e, durante le chiusure scolastiche estive ed invernali, lo raggiungevo da Napoli, dove vivevo. In queste occasioni, mi trasmetteva i suoi valori e il suo immaginario di società ideale che, a suo parere, solo a Bologna si sarebbe potuto concretizzare, compartecipando attivamente ad un progetto alternativo di società. Negli anni ebbi modo di conoscere amici, entrare gradualmente nel tessuto sociale fino al trasferimento definitivo nel 1987. Questa città è stata un contenitore sperimentale per un modello fattivo di società, non solo utopistico. Gli amministratori illuminati che provenivano da venti anni di dittatura fascista e che presero parte alla Lotta di Liberazione, in primis il sindaco Giuseppe Dozza in carica dal 1945 al 1966, avevano dato vita ad un welfare di impostazione scandinava, socialdemocratico, piuttosto che rigidamente socialista. Difatti negli anni 60 il modello bolognese fu studiato negli Stati Uniti e oltremanica perché veniva riconosciuto universalmente giusto. In un articolo del New York Times del 1961, l’inviato riconobbe a Dozza il ruolo di amministratore capace e umano, persino per i suoi nemici, lodandolo per la ricostruzione morale e materiale della città e per la creazione di un welfare avveniristico unico al mondo. Il cronista statunitense non si capacitava, affermando: “com’è possibile che Bologna è così democraticamente ben amministrata se il sindaco Dozza è un comunista ortodosso?” Hai trovato argomenti molto particolari per i tuoi documentari. Come si potrebbe categorizzare il corpo del tuo lavoro? (il lavoro sul sindaco a Dozza; la storia delle mondine; la storia della fondatrice dei nidi comunali; le case del popolo in Italia ed altrove…) Insomma come trovi i tuoi soggetti ed argomenti? Decisi di approcciare al documentario per dovere civile. Lo consideravo un atto di militanza, visto che le mutazioni storico-sociali avevano lasciato un vuoto identificativo in chi, come me, si collocava in una specifica area politica e culturale. Dunque, ho sentito l’esigenza di dare il mio contributo alla necessaria opera di tutela della memoria, con altri strumenti. Questa è una regione che ha pagato caramente l’avversione al nazi-fascismo durante la seconda guerra mondiale, non si potevano lasciar cadere nell’oblio le vicende, spesso drammatiche, che hanno segnato la storia di questo territorio e di quelle generazioni. Ho voluto raccontare la storia sociale di riscatto che è nel dna dell’Emilia Romagna, delle sue genti che un tempo si riconoscevano nel cooperativismo e nell’unione di intenti, nella prossimità e solidarietà, nel sacrificio contro le ingiustizie e nella lotta per i diritti. Purtroppo un abisso separa quella stagione dal presente. Hai fatto tanti film su momenti difficili a Bologna (la Resistenza, la seconda guerra mondiale, ecc.) Quale consideri il più importante? Parlaci un po' della tua opera, per favore. Sono affezionato a tutte le mie opere. Quello che mi gratifica di più è il ricordo dell’adesione del pubblico in determinate occasioni, la commozione e l’indignazione, quel senso comunitario partecipato, i battiti di mani ad accompagnare le colonne sonore, ad esempio su brani epocali come “Stalingrado” o per le meravigliose melodie di uno dei miei migliori amici, Roberto “Sacco” Secchi, prematuramente scomparso 10 anni fa e che mi manca molto. Ricordo che i miei docufilm dedicati ai temi resistenziali e sociali, scaturivano un grande entusiasmo in città, sono stati occasione di coesione tra più realtà culturali. Ad esempio, quando c’era una proiezione, gli spazi antistanti ai cinema si riempivano di associazioni, gruppi e bande musicali, rappresentanze delle istanze sane della città, tanta gente festante e partecipe che veniva ad offrire il proprio contributo alla giornata e ai protagonisti presenti in sala, spesso partigiani, con balli, danze, cori, poesie. Una dimensione compartecipata popolare che rimpiango. Com’è la cultura del cinema a Bologna? Com’è il programma del DAMS e delle scuole di cinema bolognesi? Se uno volesse imparare a fare il tuo mestiere, dove si può imparare a fare cinema a Bologna? E com’è la situazione a Roma rispetto a Bologna per fare cinema oggi? La centralità di Bologna nel panorama produttivo nazionale è nota, ma il settore vive un grande momento di difficoltà. La pandemia ha ingenerato una crisi senza precedenti e molte realtà stanno scomparendo. La virata verso l’inevitabile distribuzione on demand, che per certi versi è anche portatrice di nuovi modelli di fruizione cui si dovrà necessariamente volgere lo sguardo per il futuro, ha modificato l’attenzione nei confronti del documentario. Nascendo sempre più spesso da grandi sforzi produttivi “dal basso”, il documentario occupa oramai un settore di nicchia, che si distingue dalle grandi produzioni seriali dell’indotto industriale, peraltro generalmente poco contenutistiche e molto orientate verso l’intrattenimento. Ovviamente per le piccole società di produzione sul territorio rappresenta la fine, se le istituzioni deputate al sostegno culturale ed economico non tornano presto a rivolgere la giusta attenzione nei confronti del settore. A Roma la situazione è diversa, come da sempre. Si innesta in un contesto industriale consolidato e vicino ai luoghi di potere della politica. La natura corporativa e lobbista del nostro paese sfavorisce “le periferie”. A chi vorrebbe intraprendere questo mestiere non saprei francamente cosa consigliare, soprattutto in questo momento storico. Di certo quello che suggerirei ad un giovane lungimirante è di andare all’estero. In Francia, ad esempio, o più in generale nel nord Europa. Hai un/una regista preferito? Hai qualche film preferito? Amo la cinematografia sociale italiana degli anni 60. Il mio regista preferito è Dino Risi in coppia con il grande sceneggiatore Rodolfo Sonego. Assieme hanno dato vita a quello che reputo il più bel film italiano di sempre, “Una vita difficile” del 1961, una vera intuizione amara e profetica di ciò che sarebbe stato il futuro in Italia dopo il boom economico, con protagonista un inedito Alberto Sordi (storicamente anticomunista) nei panni del militante di sinistra Silvio Magnozzi, partigiano, giornalista idealista, militante, i cui sogni e la cui lealtà vengono stritolati dalla graduale ed arrembante arroganza della società dei consumi post bellica. Hai fatto il regista di tante cose (serie TV, documentari, cortometraggi, ecc.)—quale genere preferisci?
Scelgo ancora una volta, e nonostante tutto, il documentario. Credo rappresenti la dimensione più intima e umana in cui un autore può esprimersi. E’ ancora il luogo in cui si generano rapporti. Pensa a cosa rappresenta per un autore, ad esempio, lavorare su un doc biografico, pensa al delicato compito che gli viene affidato dal protagonista, e cioè quello di entrare in punta di piedi nella sua vita, nella sua storia, nelle sue memorie. In questo iter, c’è un momento in particolare che ripaga tutti i sacrifici: quando avverto che si è instaurato un patto fiduciario tra cronista e testimone. Solo allora mi rendo conto che è avvenuta una mutazione importante, un’investitura catartica e dunque devo andare fino in fondo. Ci si sente un po’ come “il custode del tempio”. Il documentario è deontologico, l’etica di fondo è innegabile. Che sia di osservazione, narrazione, docufiction, storico o sociale, il cinema del reale resta la più grande opportunità per divulgare conoscenza, fornendo gli strumenti critici necessari contro le omologazioni. E a cose stai lavorando adesso durante questo periodo difficile di Covid? Sto lavorando allo sviluppo (avanzato) di 4 progetti in attesa della ripartenza post-pandemica: “Cacciatori di storia” (Popcultfilm), una docu serie sulla comunità dei cercatori di reperti bellici che con il metal detector si addentrano sulla line Gotica, il fronte della WW2 nel 44-45 tra Toscana ed Emilia; “Gugliemo l’inventore” (Popcultfilm), una serie animata per bambini e ragazzi che narra le vicende dello scienziato Guglielmo Marconi durante la sua infanzia e adolescenza; “L’officina dei corpi” (Popcultfilm), un documentario sulla storia della chirurgia ortopedica dell’istituto Rizzoli e dei suoi illuminati protagonisti negli anni della prima guerra mondiale; il documentario biografico su Edo Ansaloni, creatore del “Memoriale della Libertà” e cronista, con le sue cineriprese e fotografie, delle immagini più significative della Liberazione di Bologna del 21 aprile 1945 (Videomagazine). Dove si potrebbero trovare/vedere i tuoi film? Grazie! I miei lavori sono disponibili in consultazione e prestito gratuito presso: - tutte le biblioteche e mediateche del Servizio Bibliotecario Nazionale OPAC SBN (www.opac.sbn.it) cercando nel database con nome e cognome del sottoscritto; - in distribuzione home video da Balboni video di Bologna (www.balbonivideo.com); - inoltre dall’anno scorso, vista la situazione pandemica, abbiamo deciso di rendere pubblici e gratuiti “Il sindaco, storia di un’utopia realizzata” sul sindaco Giuseppe Dozza, con Ivano Marescotti del 2015 al link: www.docacasa.it/doc-a-casa/il-sindaco/ ; -“Lame, la porta della memoria” del 2004 per il sessantesimo della Liberazione al link e su youtube al link - “1 Map x 2” sul giro del mondo di Tartarini e Monetti nel 1957 su Ducati 175 (disponibile a pagamento al link: www.vimeo.com/ondemand/1mappaper2)
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