Fucsia Nissoli (FI): Ridare la cittadinanza a chi l'ha persa in seguito a espatrio nello ius scholae6/22/2022 SALVATORE VIGLIA corrispondente “Oggi sono intervenuta nell’Aula di Montecitorio, dopo essere già intervenuta in Commissione affari esteri, sul tema della cittadinanza per esprimere la mia delusione per l’esclusione del riacquisto della cittadinanza dall’esame dello ius scholae.
Tra le forze politiche c’è qualcuno che sostiene che non si può allargare l’orizzonte dello ius scholae a chi vive all’estero ma la condizione di fatto di tanti italiani è la stessa degli immigrati che hanno studiato qui e cioè scuola in Italia e mancanza di cittadinanza. Allora perché non permettere anche a loro di riacquistare la cittadinanza italiana visto che sono già italiani di fatto? Vogliamo che gli italiani di fatto si possano sentire italiani a tutti gli effetti e quindi anche secondo il diritto, invito tutti a cogliere questa opportunità, in questo momento servono coesione e responsabilità!” Lo ha dichiarato l’on. Fucsia Nissoli Fitzgerald, deputata di Forza Italia eletta in Nord e Centro America, intervenendo nell’Aula di Montecitorio.
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FRANCESCA LA MARCA Circoscrizione Estero, Ripartizione Nord e Centro America Il 15 giugno la Commissione Affari Esteri della Camera ha iniziato l’esame, in sede consultiva, del provvedimento che reca modifiche alla legge n. 91 del 1992 in materia di cittadinanza italiana. La Commissione, infatti, è tenuta ad esprimere il proprio parere sulla proposta attualmente all’esame della Commissione Affari Costituzionali.
La relatrice Di Stasio ha illustrato il provvedimento che dovrebbe arrivare in Aula per la fine di giugno. Giova ricordare che il testo in esame punta esclusivamente ad introdurre una nuova fattispecie di cittadinanza orientata al principio dello ius scholae con l’obiettivo di garantire la cittadinanza italiana ai minori stranieri nati in Italia che abbiano risieduto legalmente e senza interruzioni nel nostro Paese e abbiano frequentato regolarmente uno o più cicli scolastici. La relatrice, ai fini delle competenze della Commissione, ha voluto richiamare l’attenzione dei commissari sui diversi temi che, pur non rientrando nel perimetro della riforma in discussione, riguardano la trasmissione della cittadinanza iure sanguinis per i nati all’estero e il riacquisto della cittadinanza italiana. Su questi temi, del resto, sono stati presentati numerosi emendamenti ancora all'esame della Commissione Affari Costituzionali. L’on. La Marca, intervenuta nel corso della discussione, ha auspicato che il parere della Commissione Affari Esteri esprima un orientamento favorevole anche sulla possibilità di riacquisire la cittadinanza italiana da parte di coloro che l’hanno perduta. “Gli emendamenti che ho presentato in Commissione Affari Costituzionali – ha sottolineato l’on. La Marca – riguardano aspetti particolari e circoscritti. Due emendamenti affrontano la perdita della cittadinanza da parte delle donne che hanno sposato uno straniero prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Chiedo, in sostanza, di adeguare la normativa ai principi riconosciuti da tutta una serie di sentenze, consentendo di fare un passo in avanti sul piano della parità di genere e permettendo ai figli di queste donne, nati prima del 1° gennaio 1948, a loro volta, di poterla riacquisire. L'altro emendamento riguarda chi è nato in Italia e che, dopo essere emigrato, ha perduto la cittadinanza italiana perché ha dovuto assumere per ragioni di lavoro e di vita la cittadinanza del Paese di residenza. Con l'emendamento chiedo che questi cittadini possano riacquisirla senza dover soggiornare in Italia per almeno dodici mesi, come prevede la legge attualmente in vigore, ma presentando l’istanza direttamente al consolato di riferimento". “La Commissione Affari Costituzionali – ha ricordato la deputata democratica a margine della riunione - ha deciso di accantonare, tra gli altri, anche questi emendamenti. Questa decisione è stata presa con l’obiettivo di raggiungere in tempi brevi un testo condiviso e di dare al nostro Paese una norma di civiltà assolutamente non rinviabile. Una riforma che condivido con convinzione. Tuttavia, non posso non rilevare che questa occasione dovrebbe essere utilizzata anche per risolvere questioni altrettanto urgenti che aspettano da tempo una soluzione. Sottolineo con forza che i cittadini nati in Italia, che sono stati costretti ad emigrare alla ricerca di un futuro migliore e che hanno dovuto rinunciare alla cittadinanza italiana, hanno il diritto di poterla riacquisire, inoltrando la domanda direttamente ai consolati senza tornare obbligatoriamente in Italia. È assurdo che questi italiani siano costretti a rinunciare perché impossibilitati a muoversi per motivi di salute, familiari ed economici. Sollecito, dunque, la Commissione Esteri, nel proseguo dei suoi lavori sulla materia, ad esprimere un orientamento favorevole a queste problematiche e agli emendamenti che rappresentano un atto dovuto e giusto nei confronti dei nostri emigrati”. MARIO LETTIERI & PAOLO RAIMONDI ItaliaOggi.it Che la pandemia e la guerra in Ucraina abbiano causato grandi turbolenze economiche globali non è in discussione. Non è vero, però, che siano le sole cause dell'inflazione nel mondo e dell'incipiente recessione economica. Non si può nascondere sotto il «tappeto» della pandemia e della guerra tutta «l'immondizia speculativa finanziaria» che ci trasciniamo da decenni. Anche i recenti avvisi di crisi fatti da alcuni esponenti della finanza non devono trarre in inganno. Jamie Dimon, amministratore delegato di JP Morgan, si aspetta «un uragano economico» provocato dalla riduzione del bilancio della Fed e dalla guerra in Ucraina. Lorsignori sono preoccupati della bolla finanziaria che hanno creato più che delle sorti dell'economia. È come il grido di un drogato che non ha più accesso alla droga.
Basta analizzare il bilancio della Federal Reserve per comprendere meglio il problema. Dai 900 miliardi di dollari precrollo della Lehman Brothers, esso era arrivato a 4.500 miliardi nel 2014. C'è stata un'imponente immissione di liquidità per salvare il sistema. Poi, dall'inizio della pandemia si è passati da 4.100 agli attuali 9.000 miliardi di dollari. Più del doppio in due anni! Questo comportamento è stato replicato dalla Bce e dalle altre banche centrali. Negli Usa una parte rilevante è andata a sostenere «artificialmente» le quotazioni di Wall Street e i corporate debt, cioè i debiti delle imprese spesso vicini ai livelli «spazzatura». A ciò si aggiunga la politica del tasso zero e negativo che ha favorito l'accensione spregiudicata di nuovi debiti, con il rischioso allargamento del cosiddetto «effetto leva», e ha generato titoli, pubblici e privati, per decine di migliaia di miliardi a tasso d'interesse negativo. Di fatto la Fed, e in misura minore le altre banche centrali, è diventata una vera «bad bank». L'impennata dell'inflazione ha reso il loro accomodante modus operandi non più sostenibile. L'aumento del tasso d'interesse e la riduzione dei quantitative easing stanno facendo saltare il banco. Anche la narrazione della crescita dell'inflazione non regge. Non basta sostenere che sia l'effetto degli squilibri generati dalla ripresa economica e dalla guerra. Sarebbe stupido negarne l'effetto. La narrazione, però, fa sempre perno sul meccanismo «imparziale e oggettivo» della domanda e dell'offerta. Cosa che però non si è pienamente manifestata con la diminuzione dei prezzi quando la domanda era scesa all'inizio del Covid. Nei mesi della pandemia non c'è stata una smobilitazione industriale mondiale tanto grande da giustificare le forti pulsioni inflattive generate da una modesta ripresa economica e dei consumi. Anche il rallentamento delle «catene di approvvigionamento» è stato esagerato da una certa propaganda interessata. Occorre mettere in conto l'effetto dell'enorme liquidità in circolazione e la necessità per il sistema finanziario di generare a tutti i costi dei profitti, anche con la speculazione. Ecco alcuni dati per una più corretta valutazione dell'inflazione. Riguardo all'indice dei Global Prices of Agriculture Raw Materials, le derrate alimentari, la Federal Reserve Bank di St Louis riporta che mediamente era di 91 punti ad aprile 2020, 114 un anno dopo e 123 ad aprile 2022. Il prezzo del petrolio Wti, che era 18 $ al barile ad aprile 2020, aveva già raggiunto i 65 $ un anno dopo. A maggio 2022 superava i 114 dollari. Simili andamenti sono riportati dal Fmi per l'indice delle commodity primarie che sale progressivamente dai 60 punti del 2020 per poi crescere vertiginosamente negli ultimi mesi fino a raggiungere i 150 punti. Evidentemente gli effetti della guerra e delle sanzioni incidono non poco sull'impennata dei prezzi di detti prodotti. L'indice dei prezzi dei fertilizzanti della Banca mondiale, che nell'aprile 2020 era 66,24 a dicembre 2021 era esploso a 208,01. L'aumento del 60% negli ultimi due mesi del 2021 ha devastato gli agricoltori di tutto il mondo. Ancora una volta la fa da padrone la speculazione. È singolare che si chieda l'immediata sospensione delle attività belliche e non s'intervenga contro la speculazione i cui effetti devastanti si riverberano a livello globale. MICHAEL CROSS President, St Louis-Bologna Sister Cities The Italian Community of St Louis welcomes two great curators of Italian art to St Louis: Yuri Primarosa of the Gallerie Nazionali di Arte Antica in Rome and Roberto Palermo of the Gallerie degli Uffizi in Florence. Both curators are in St Louis on behalf of their respective museums for the closing of the Saint Louis Art Museum's exhibition "Paintings on Stone" Yuri is a curator at the National Galleries of Ancient Art (Gallerie Nazionali di Arte Antica) in Rome. His interests focus mainly on the paintings and graphics produced in Rome in the seventeenth and eighteenth centuries, to which he has dedicated numerous contributions. He obtained his bachelor's degree in art history at La Sapienza University of Rome, writing his thesis on Karel van Vogelaer and "still life" in Baroque art. In 2015, he obtained his PhD also from La Sapienza, writing his thesis on Ottavio Leoni. Yuri has published a comprehensive catalogue of Leoni's works for Ugo Bozzi Publishers entitled "Ottavio Leoni (1578-1630), Eccellente miniator di ritratti. Catalogo ragionato dei dipinti e dei disegni (Rome, 2018)". As noted previously, Yuri is also interested in painting and graphics in Rome in the 17th and 18th centuries. He is the author of the essay "Irving Lavin, Bernini and the Unity of the Visual Arts, 1980", in the publication La riscoperta del Seicento (The Rediscovery of the Seventeenth Century), I libri fondativi, within the first volume of the Quaderni di Ricerca della Fondazione 1563 (Genova, 2017). In 2015 he was the winner of a Scholarship for Advanced Studies from the 1563 Foundation for Art and Culture, with a project on the figure of Elpidio Benedetti (1609-1690), agent of the French crown in Rome. The research shed new light on the artistic commissioning and intermediary activity of Giulio Mazzarino and Jean-Baptiste Colbert at the Holy See. Through an in-depth documentary survey conducted in the Roman and Parisian archives, Primarosa shed light on a key figure in the Roman scene of the second half of the seventeenth century. Roberto Palermo is the senior photographer and a curator of art at the Uffizi Museum in Florence which houses works of Leonardo da Vinci, Michelangelo, Caravaggio, and Raphael. Born in Puglia, Roberto studied at the University of Florence. Since 1999, he has been creating art catalogues for the Uffizi Museum specializing in the professional reproduction of antique pieces of art in the graphic field for exhibition purposes and in the digital scanning of works of art through UV/IR systems for studio usage, research and scientific purposes. Yuri è conservatore presso le Gallerie Nazionali di Arte Antica a Roma. I suoi interessi scientifici vertono prevalentemente sulla pittura e sulla grafica prodotte a Roma nei secoli XVII e XVIII, a cui ha dedicato numerosi contributi. Yuri ha conseguito la specializzazione in Beni Storico-Artistici presso La Sapienza Università di Roma, discutendo una tesi su Karel van Vogelaer e la natura morta in età barocca. Nel 2015 ha conseguito il dottorato di ricerca nello stesso Ateneo, discutendo una tesi su Ottavio Leoni. Oltre a quest’ultimo artista, del quale ha appena pubblicato per Ugo Bozzi Editore il catalogo ragionato delle opere nel volume Ottavio Leoni (1578-1630). Eccellente miniator di ritratti. Catalogo ragionato dei dipinti e dei disegni (Roma, 2018), si interessa di pittura e grafica a Roma nei secoli XVII e XVIII. È autore del saggio “Irving Lavin. Bernini and the Unity of the Visual Arts, 1980”, in La riscoperta del Seicento. I libri fondativi, primo volume della collana Quaderni di Ricerca della Fondazione 1563 (Genova, 2017).
Nel 2015 è risultato vincitore di una Borsa di Alti Studi della Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura, con un progetto sulla figura di Elpidio Benedetti (1609-1690), agente della corona di Francia a Roma. La ricerca ha fatto nuova luce sulla committenza artistica e sull’attività di intermediario di Giulio Mazzarino e di Jean-Baptiste Colbert presso la Santa Sede. Attraverso un’approfondita ricognizione documentaria condotta negli archivi romani e parigini, Primarosa ha fatto luce su una figura chiave nella scena romana del secondo Seicento. Roberto Palermo è il fotografo senior delle Gallerie degli Uffizi a Firenze che ospita molte opere di Michelangelo, Caravaggio, Raffaello e Leonardo da Vinci. Nato in Puglia, Roberto ha studiato all'Università di Firenze. Dal 1999 realizza cataloghi d'arte per le Gallerie degli Uffizi specializzandosi nella riproduzione professionale di opere d'arte antiche in ambito grafico per scopi espositivi e nella scansione digitale di opere d'arte tramite sistemi UV/IR per uso in studio, ricerca e scopi scientifici. Michael Cross interviews Giorgio Bucci, CEO of Arteco Global and founder of the Italian Business Association of St Louis Giorgio, tell us something about yourself. Where are you from and what brought you to the United States? Specifically, tell us why you came to St Louis.
I was born and raised in Faenza in the province of Ravenna. I came to St Louis in 2003 to work on a quality control internship at a manufacturing company called Hydromat. This company had strong ties to an Italian company owned by my family. Once I finished my internship, I decided to stay in St Louis. I continued my learning path for a period of two years and obtained a Masters in Business and Administration at Saint Louis University. What prompted you to be an entrepreneur in the United States? Once I finished my studies at Saint Louis University, I had the intuition that the physical security market was growing rapidly. I gradually married the core business of Arteco, a company that, at the time was directed by my father, Carlo Bucci, from industrial electronics (PLC and CNC) to security in the field of intelligent video surveillance. I thus helped to open Arteco's first foreign subsidiary here in St Louis in 2005 because I was aware that the American market was more inclined to welcome new technologies than the Italian national market. Since that time I have always lived in St Louis and contributed to the growth of Arteco especially throughout the United States. Why did you choose St Louis to start your business? The fact that St Louis is a city which is perfectly geographically positioned to serve the American domestic market certainly has contributed to the opening of Arteco in the Midwest. Furthermore, at that time, I already had an advanced network of acquaintances in the St Louis area and therefore staying after my studies at Saint Louis University was undoubtedly the most logical step and a decision that proved to be a winning one. What are the key factors that have made your business so successful? In my opinion, companies are made up of people. Knowing how to choose the right people to surround yourself with is undoubtedly the most delicate and important choice for an entrepreneur. After almost 20 years in business, I can proudly say that the success of Arteco Global is primarily due to the people who have worked on the company's growth over the years. The new challenges we are working on are to move the professional video surveillance market towards a recording revenues model, with our software given on a monthly or quarterly fee. What advice would you like to give to aspiring Italian entrepreneurs when starting their business in the United States? I feel I can tell future entrepreneurs that it is precisely their motivation and determination which determines whether or not they will be successful. It is already difficult to be self-employed, plus at the beginning, here in the United States, there are further obstacles, such as work and residence permits, so you need to have even more determination and do more work. Where I come from, we say: "put your head down and pedal". How did the idea of the Italian Business Association of St Louis come about? The Italian community in St Louis is growing rapidly and is well organized with many volunteers, thanks to leaders with long term vision such as Cav. Franco Gianotti, Scott Hoff, Giovanna Leopardi and the interviewer himself, Michael Cross, whose idea it was to found this great community. I think that now the time is right to assist these many cultural and linguistic activities with business ones. The purpose of the Italian Business Association is simply to facilitate and help relationships between St Louis and Midwestern companies that want to enter the Italian market and vice versa between Italian companies that want to undertake a path in the United States and in particular in St Louis and in the Midwest. HELENA LABUS BACIC La Voce del Popolo Al Museo etnografico dell’Istria di Pisino è stata inaugurata la mostra “Veze – Legami – Istriani dopo la Seconda guerra mondiale – Istrani nakon 2. svjetskog rata”, un progetto espositivo realizzato in collaborazione con il Centro di ricerche storiche di Rovigno e con alcune Comunità degli Italiani. L’evento è parte del più ampio progetto europeo “Identity on the line” (Identità minacciate), nell’ambito del Programma “Europa creativa”, a cui collaborano ben sette Paesi: Croazia, Slovenia, Polonia, Lituania, Svezia, Danimarca e Norvegia. La narrazione del progetto – come spiegato nella presentazione dell’esposizione – è incentrata sulle migrazioni forzate avvenute in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, che hanno interessato decine di milioni di persone, costrette a lasciare ogni cosa in seguito agli eventi bellici, degli spostamenti dei confini e delle pulizie etniche o semplificazioni che avvennero all’epoca. Autrici della mostra sono Lidija Nikočević e Tamara Nikolić Đerić, mentre il design dell’allestimento e la sua versione online sono firmate dallo Studio Sonda.
L’evento è stato inaugurato dalla direttrice del Museo etnografico dell’Istria, Ivona Orlić, la quale ha dichiarato che la mostra parla degli istriani che se ne sono andati e di coloro che sono rimasti nella penisola nel secondo dopoguerra e ha voluto ringraziare le autrici che si sono cimentate con un tema difficile. Un periodo estremamente buio Il presidente dell’Unione Italiana, Maurizio Tremul, ha definito molto importante il progetto espositivo. Ha ricordato che secondo alcuni studi e ricerche sono stati 30 milioni i cittadini costretti alle migrazioni forzate, deportati, dispersi per volere di Hitler e Stalin tra il 1939 e il 1945, mentre altri 20 milioni sono stati oggetto di pulizia etnica e forzati trasferimenti nell’Europa che si andava liberando dal giogo nazi-fascista dal 1943 al 1948. “Un periodo particolarmente buio nella storia d’Europa e dell’umanità: l’oppressione e le violenze del regime nazi-fascista si accanirono in queste latitudini particolarmente contro i croati e gli sloveni, ma anche contro tutti gli oppositori del regime, italiani compresi – ha puntualizzato Tremul -. Si tratta di tragici accadimenti e orribili crimini che sono giustamente ricordati a futura memoria. Parimenti vanno ricordate le violenze e i crimini perpetuati dal regime comunista jugoslavo contro tutti gli oppositori sloveni e croati, in particolare contro la popolazione italiana, che sfociò nella tragedia delle foibe e portò all’espulsione forzata, all’esodo della maggior parte degli italiani, ma non solo. Oggi siamo pienamente coscienti che l’antifascismo e l’antitotalitarismo di qualsiasi colore, la difesa della democrazia e delle libertà fondamentali dell’uomo sono valori che vanno affermati e difesi con sempre maggior determinazione in un periodo storico in cui vanno crescendo”, ha osservato Tremul, aggiungendo che l’esodo nel secondo dopoguerra dall’Istria, ma anche da Fiume, Quarnero, Dalmazia ha profondamente mutato la fisionomia di queste terre. L’esodo – un fatto ancora sconosciuto “L’espulsione della popolazione italiana autoctona ha quasi cancellato le radici e l’identità profondamente plurale dell’Istria che non ha bisogno di aggettivazioni nazionali croato italiano sloveno. Sarebbe una nuova violenza in una realtà in cui le nostre genti si sono mescolate tra loro”, ha sottolineato Tremul, osservando come in Istria probabilmente non c’è famiglia che non abbia parenti italiani, croati, sloveni ed esuli italiani, sloveni e croati. “La vicenda dell’esodo è ancora sconosciuta alla maggior parte della popolazione istriana in Croazia e in Slovenia ed è ancora oggetto di tanti preconcetti, mistificazioni e falsificazioni. Devono invece essere conosciute e studiate. Meritano rispetto. Questo progetto rappresenta un inestimabile contributo alla conoscenza, al sapere, unici rimedi alle nuove battaglie che ancora oggi insanguinano il nostro Pianeta, dall’Ucraina alle guerre dimenticate, ai nascenti nuovi totalitarismi e tentazioni totalitarie di cui conosciamo i pericoli avendoli contrastati fisicamente fino a ieri”, ha precisato Tremul, ringraziando le autrici del progetto espositivo, il Centro di ricerche storiche di Rovigno, il Museo etnografico dell’Istria e le Comunità degli Italiani di Gallesano, Dignano e Valle e tutti coloro che hanno collaborato alla sua riuscita. Ha espresso quindi l’auspicio che la mostra possa venire allestita anche in altre città, incluse Lubiana e Zagabria. Un approccio partecipativo Lidija Nikočević, autrice della mostra assieme a Tamara Nikolić Đerić, ha ringraziato tutti i collaboratori al progetto e ha rilevato come in seno al Museo non si è voluto costruire una nuova verità sull’esodo, ma l’intento è stato quello di dare una voce a coloro che raramente vengono ascoltati. Si è detta compiaciuta per la collaborazione con il Centro di ricerche storiche di Rovigno, più precisamente con la storica Orietta Moscarda che ha scritto l’introduzione all’allestimento. “In questo contesto abbiamo voluto dare la possibilità di esprimersi alle istituzioni che si occupano di queste tematiche – ha puntualizzato -. Si tratta di un approccio partecipativo al progetto”, ha aggiunto Lidija Nikočević, rilevando come al progetto hanno contribuito anche due esponenti dei “rimasti”, Marina Pauletich e Giulia Cnapich. Tamara Nikolić Đerić ha ricordato che “due anni fa, all’inizio di quest’avventura, una persona mi disse ‘buona fortuna’ – ha osservato l’autrice -. Questo è un tema difficile che ha tante sfumature e tante posizioni diverse. La domanda era da dove cominciare, ma grazie all’approccio partecipativo di coloro che hanno dato il loro contributo e a coloro che hanno condiviso le loro memorie ed esperienze, oggi possiamo dire che noi del Museo etnografico dell’Istria abbiamo cominciato e abbiamo fatto questo primo passo per avvicinare i destini ai più giovani non solo in Istria, ma in tutta l’Europa. Speriamo di imparare dal passato e di guardare al futuro insieme tutelando il nostro patrimonio condiviso”. L’assessore alla Cultura della Regione istriana, Vladimir Torbica, ha definito molto emotiva e personale la mostra, in quanto gran parte della sua famiglia se n’è andata in Italia nel secondo dopoguerra. “Tutti noi siamo coscienti che molte cose in Istria non sarebbero le stesse se i nostri antenati fossero rimasti nella loro terra. Però, l’esodo c’è stato e posso soltanto ringraziare le autrici della mostra per aver ripreso a elaborare un tema che per tanto tempo era trascurato e credo che dovrebbe essere molto più presente e visibile in pubblico”, ha osservato Torbica, il quale ha invitato i soci delle varie CI a visitare la mostra. Intervista esclusiva di Michael Cross all'Onorevole Fucsia Nissoli Fitzgerald, Deputata al Parlamento Italiano, Circoscrizione Estero - Ripartizione Nord e Centro America. Quali sono le questioni che ritiene rilevanti e qual’è la sua visione a lungo termine in qualità di deputata al Parlamento eletto dai cittadini italiani che vivono nel Nord e Centro-America?
Ci sono questioni di carattere generale che riguardano gli italiani all'estero e questioni attinenti maggiormente le Comunità italiane del Nord e Centro America. Direi che sul piano istituzionale la cosa più rilevante e’ l'istituzione della Commissione Bicamerale per gli Italiani all'Estero che dovrebbe dare più risalto e forza, all'interno del Parlamento, alle politiche emigratorie. L'istituzione di tale commissione dovrebbe sopperire, con la sua forza istituzionale, la perdita del numero degli eletti all'estero così come sancito dalla riforma istituzionale. Poi ci sono le questioni che riguardano le politiche di non discriminazione fiscale che dovrebbero rendere a garantire anche a chi risiede all'estero di accedere alle agevolazioni IMU. Per tale questione ho presentato recentemente, una Proposta di Legge che è tesa a garantire il diritto alle esenzioni IMU prima casa anche per gli italiani all'estero nel rispetto dei trattati Ue, cosa che era stato di impedimento all’implementazione dei provvedimenti che garantivano l’esenzione IMU sulla prima casa dei pensionati italiani all'estero. Inoltre, credo che siano di particolare rilevanza le politiche di rafforzamento dei servizi consolari, quella per la cittadinanza, quelle per la promozione della lingua italiana, viva espressione del nostro patrimonio culturale, e quelle per la tutela e promozione del Made in Italy. A tal proposito, sono riuscita a far approvare un emendamento al Decreto Rilancio, per l’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese, che prevede lo stanziamento di 5 milioni di euro aggiuntivi in favore delle Camere di Commercio Italiane all'Estero (CCIE). Sono fiera di questo risultato non solo per l'obiettivo raggiunto ma anche perché ho visto convergere sul mio emendamento anche altri colleghi, di altri schieramenti, che non erano riusciti a far avanzare le loro proposte emendative in merito alla stessa questione, cioè l’internazionalizzazione. Sono stata molto contenta di essere riuscita ad unire le diverse posizioni politiche per raggiungere un risultato importante per la promozione della nostra economia all'estero, dando sostegno alle CCIE che sono presenti sul territorio e sanno bene come aiutare le imprese italiane nei loro progetti di penetrazione commerciale all'estero. Come dico sempre: l'unione fa la forza! Per ultimo ma non per importanza vorrei citare anche l'attenzione alla tutela della figura di Colombo e del Columbus Day in USA, quale simbolo del nostro orgoglio identitario. Infatti, convinta dell'importanza di questo, ho presentato una mozione a Montecitorio per impegnare il Governo italiano ad agire, sul piano politico e diplomatico, per tutelare la memoria di Cristoforo Colombo oltre ogni forma di revisionismo storico. La mia mozione e' stata firmata dai parlamentari di tutti i gruppi politici e speriamo che possa arrivare presto in Aula per la discussione. Di seguito il link. Si è parlato molto della riforma strutturale dell'intero sistema di rappresentanza degli italiani all'estero. Cosa ne pensa e quali sono i cambiamenti che vorrebbe mettere in atto il prima possibile? Ecco, Lei tocca un aspetto fondamentale per la prosecuzione della vicenda politica degli italiani all'estero affinché possa continuare al meglio. Si tratta di riformare le modalità di voto correggendo tutte quelle storture che si sono manifestate in questi anni. In effetti, si sono fatti molti annunci ma pochi fatti ed oggi che c'è un eletto all'estero al governo credo che il tempo delle scuse sia finito! Bisogna agire subito per garantire la sicurezza del voto all'estero secondo i dettati della Costituzione affinche’ esso sia effettivamente libero, personale e segreto. E questo lo si può fare anche innovando con l'uso dei mezzi che le tecnologie informatiche ci mettono a disposizione: mi riferisco all'introduzione del voto elettronico a partire dalle elezioni dei Comites fino al voto per il Parlamento! I tempi sono maturi e peccato che non si utilizzata la prossima tornata elettorale per il referendum per fare una prima sperimentazione del voto elettronico! Tre anni fa, la nostra comunità ha lanciato il programma di lingua italiana di St Louis che ha riscontrato un successo sorprendente con oltre 200 partecipanti che frequentano regolarmente le lezioni d'italiano. Nel 1999, Franco Giannotti, nostro amico in comune, ha fondato il club “Italiano Per Piacere” come unico club di lingua italiana nel Midwest, che continua a prosperare fino ad oggi. Come puo’ vedere, la promozione della lingua italiana e’ tutt’ora una priorità per noi. Crediamo fermamente che la cultura si sviluppi intorno ad una lingua e che senza la lingua italiana una cultura italiana non possa essere trasmessa alle generazioni a venire. Potrebbe parlarci dell'importanza della promozione della lingua italiana negli Stati Uniti? Il programma di lingua italiana di St Louis, St Louis Italian Language Program, è un fiore all'occhiello per la promozione della lingua italiana in USA e ringrazio Franco Giannotti, Giovanna Leopardi e tutti coloro che si sono impegnati in questa bella avventura. E dico bella non a caso perché la lingua italiana, la lingua di Dante, e’ la lingua della bellezza! L'italiano è oggetto di grande interesse in USA sia da parte di chi ha origini italiane sia da parte di chi ama la cultura italiana e per questi l'italiano e’ uno strumento fondamentale per comprendere meglio la musica, l'arte e l'enogastronomia italiana. Infatti, nella scorsa Legislatura ho promosso un progetto in collaborazione con il Ministero dell'Istruzione e la scuola Marconi di New York, con il Patrocinio del Consolato Generale d'Italia a New York, che ha permesso a due giovani studenti di origine italiane di fare un percorso di studio di tre mesi a Roma centrato sul rapporto tra lingua italiana ed enogastronomia. Un successo che credo sia da istituzionalizzare mettendo insieme le varie realtà educative presenti negli Stati Uniti ed in Italia! Michael Cross intervista Giorgio Bucci, CEO di Arteco Global e fondatore della Italian Business Association of St Louis Giorgio, raccontaci qualcosa di te. Da dove vieni e come sei arrivato negli Stati Uniti? Nello specifico, perché sei venuto a St Louis?
Sono nato e cresciuto a Faenza in provincia di Ravenna. Sono venuto a St Louis nel 2003 per lavorare ad un internship sul controllo qualità in una azienda manifatturiera chiamata Hydromat. Questa azienda aveva dei forti legami con una società italiana posseduta dalla mia famiglia. Una volta finito l’internship, ho deciso di rimanere a St Louis e ho proseguito il mio percorso di apprendimento con un corso di Master in Business and Administration presso la Saint Louis University per un periodo di due anni. Cosa ti ha spinto ad essere imprenditore negli Stati Uniti? Una volta terminato il mio percorso di studi alla Saint Louis University ho avuto l’intuizione che il mercato della sicurezza fisica fosse in forte crescita. Ho così gradualmente sposato il core business di Arteco, società a quell’epoca diretta da mio padre, Carlo Bucci, dall’elettronica industriale (PLC e CNC) alla sicurezza nel campo della videosorveglianza intelligente. Ho così contribuito ad aprire la prima filiale estera di Arteco qui a St Louis nel 2005 perché ero consapevole che il mercato americano era più propenso ad accogliere nuove tecnologie rispetto al mercato nazionale italiano. Da quel momento ho sempre vissuto a St Louis e contribuito alla crescita di Arteco soprattutto negli Stati Uniti. Come mai hai scelto St Louis per avviare la tua attività? Il fatto che St Louis sia geograficamente posizionata in maniera perfetta per servire il mercato nazionale americano ha sicuramente contribuito all’apertura di Arteco nel Midwest. Inoltre, in quell’epoca, avevo già un network di conoscenze avanzato nella città di St Louis e quindi rimanere dopo gli studi alla Saint Louis University e' stato senz’altro il passo più fisiologico e una decisione che si è rilevata vincente. Quali sono i fattori chiave che hanno portato la tua attività ad avere così tanto successo? A mio parere le aziende sono fatte di persone. Il saper scegliere il gruppo giusto è senz’altro la scelta più delicata ed importante per un imprenditore. Dopo quasi 20 anni di attività posso dire con orgoglio che il successo di Arteco Global è dovuto in primis dalle persone che in questi anni hanno lavorato alla crescita aziendale. La nuova sfida a cui stiamo lavorando è quella di spostare il mercato della videosorveglianza professionale verso un modello di recording revenues, con il nostro software dato a canone mensile o trimestrale. Quale consiglio vorresti dare agli aspiranti imprenditori italiani all'inizio della loro attività negli Stati Uniti? Mi sento di dire ai futuri imprenditori che sarà la loro motivazione e determinazione a determinare se avranno successo o meno. Già è difficile essere lavoratori autonomi, in più all’inizio, qui negli Stati Uniti ci sono ulteriori ostacoli, come permessi di lavoro e soggiorno, quindi serve ancora piu’ determinazione e lavoro. Dalle mie parti si dice: “testa bassa e pedalare”. Come è venuta l’idea della Italian Business Association of St Louis? Siccome la Comunità Italiana di St. Louis è in forte crescita ed è ben organizzata da molti volontari tra cui spiccano i nomi di Franco Gianotti, Scott Hoff, Giovanna Leopardi e lo stesso intervistatore Michael Cross, fondatore della comunità, ho pensato che fosse arrivato il momento di coadiuvare le attività culturali a quelle di business. Lo scopo della Italian Business Association è semplicemente quello di facilitare e aiutare i rapporti tra le aziende del Midwest che vogliono affacciarsi sul mercato italiano e viceversa tra le aziende Italiane che vogliono intraprendere un percorso negli Stati Uniti ed in particolare nel Midwest. FRANCESCA PERRONE VELVETMAG.IT Unica donna italiana vincitrice del Premio Nobel per la medicina e Senatrice della Repubblica Italiana: ricercatrice e professoressa alla Washington University in Saint Louis per 30 anni Rita Levi-Montalcini resta uno dei simboli più alti dell’emancipazione femminile; con la sua eleganza e il suo garbo, ma soprattutto con il suo intelletto, ha lottato per l’affermazione della donna in un ‘mondo fatto di uomini’. E con la sua pacatezza e tenacia ha ottenuto traguardi che le renderanno onore per sempre.
Unica donna italiana a vincere il Premio Nobel per la medicina; devota alla scienza e alla ricerca, Rita Levi-Montalcini è una delle personalità più grandi che il nostro secolo ha avuto l’onore di conoscere. Simbolo indiscusso dell’emancipazione femminile, si dedicò al suo lavoro anche durante il fascismo, clandestinamente. Figlia dell’ingegnere elettronico Adamo Levi e della pittrice Adele Montalcini, Rita Levi-Montalcini fu cresciuta con i valori della cultura e del pensiero critico. Valori che furono a fondamenta di tutta la sua vita e che contribuirono anche a renderla Senatrice della Repubblica Italiana nel 2001. Rita Levi-Montalcini nasce a Torino il 22 aprile del 1909 da una colta famiglia ebrea sefardita. Gli insegnamenti critici ereditati dai genitori la spingono ad intraprendere gli studi scientifici e iscriversi nel 1930 alla Facoltà di Medicina; decisione non accolta di buon grado dalla famiglia che, nonostante la grande cultura di base, la volevano forse moglie e madre. Ma sin dalla giovane età Rita Levi-Montalcini si dimostrò insofferente al ruolo stigmatizzato in cui le donne dei suoi tempi erano relegate. In una delle sue celebri dichiarazioni, passate alla storia, l’illustre scienziata affermò: “L’esperienza del ruolo subalterno che spettava alla donna in una società interamente gestita dagli uomini mi aveva convinto di non essere tagliata per fare la moglie“. Convinta da sempre che tra uomo e donna dovesse esistere l’uguaglianza intellettuale rivendicò questa causa per tutta la sua vita; causa alla quale accompagnò anche il costante interesse per la scienza e la ricerca. Alla Facoltà di Medicina iniziò a lavorare come internista, nell’istituto di Giuseppe Levi, dove iniziò gli studi sul sistema nervoso e nel 1936 si laureò con 110 e lode. Dopo la laura Rita Levi-Montalcini decise di intraprendere la specializzazione in Psichiatria e Neurologia; questi anni però coincisero ben presto con l’emanazione delle leggi razziali. Per una donna ebrea sefardita era praticamente impossibile svolgere il ruolo di scienziata. Nel 1938 il regime fascista obbligò la studiosa a lasciare l’Italia ed emigrare in Belgio; una vita fatta di sacrifici e coraggio che si racchiudono nell’essenza di una donna che non si fermò mai, nonostante tutto. Dopo l’arrivo in Belgio, poco mesi dopo la Germania nazista la costrinse ancora a spostarsi; partì alla volta di Bruxelles e in seguito fece ritorno a Torino. In Italia, nella sua camera da letto, continuò clandestinamente a fare ricerca con un piccolo laboratorio improvvisato. Inizio a studiare il sistema nervoso degli embrioni di pollo insieme al suo mentore Giuseppe Levi; in quegli anni scoprirono l’apoptosi: il processo di morte cellulare controllato geneticamente. Ma fuori da quel laboratorio fortuito imperversava la Seconda Guerra Mondiale e la famiglia Levi-Montalcini, dopo il bombardamento di Torino nel 1941, fu costretta a rifugiarsi prima in campagna e poi a Firenze. E dopo la liberazione di Firenze, l’illustre scienziata lavorò come medico al servizio degli Alleati. Al termine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1947, Rita Levi-Montalcini fu invitata dal neuroembriologo Viktor Hamburger a proseguire le sue ricerche negli Stati Uniti, presso la Washington University di Saint Louis. Quello che doveva essere un progetto di qualche mese si trasformò in un lavoro di trent’anni, venti dei quali la studiosa insegnò presso l’Università statunitense. Nel 1954 scoprì la NGF, una molecola proteica tumorale attiva nel sistema nervoso. Fu questa scoperta e i successivi studi condotti in merito che le valsero, con estremo onore e merito, il Premio Nobel per la Medicina nel 1986; le scoperte di Rita Levi-Montalcini furono fondamentali per la comprensione di alcuni tipi di tumore, così come di malattie come l’Alzheimer e il Parkinson. Prima e unica donna italiana a ricevere questo onorificenza in questo campo, in tutta la sua vita Rita Levi-Montalcini fu impegnata in innumerevoli progetti; non solo scientifici, ma anche sociali come la lotta per la parità dei diritti per le donne. Attraverso la sua fondazione Rita Levi-Montalcini Onlus ha finanziato borse di studio a sostegno delle donne dei paesi in via di sviluppo; si è battuta per il diritto all’aborto e per l’emancipazione femminile in ogni campo. Consapevole che per molte donne non è mai stato facile imporsi alla pari in un ‘mondo di uomini’, Rita Levi-Montalcini ha dato il suo forte contributo in ogni istante della sua esistenza. “Per aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo scientifico e sociale“; così il primo agosto del 2001 Rita Levi-Montalcini riceveva la nomina a Senatrice a vita. Parole che possiamo dire racchiudono l’essenza di quello che questa donna sempre elegante, sempre pacata, sempre garbatamente decisa ha rappresentato nella sua vita e anche dopo. Membro delle più prestigiose accademie scientifiche, come l’Accademia Nazionale dei Lincei, l’Accademia Pontificia (prima donna ad esservi ammessa), la National Academy of Sciences negli USA e la Royal Society, Rita Levi Montalcini ha continuato la sua ricerca fino a poco prima della sua morte. In occasione del compimento dei suoi cento anni dichiarò: “Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente“. E con quella forza e quell’intelletto che la contraddistinsero per tutta la vita morì il 30 dicembre 2012, consapevole, forse, che quello che la sua mente ha creato sarebbe vissuto per sempre. MICHAEL CROSS Fondatore della comunità italiana di St Louis Conoscete expat italiani a St Louis? Io ne conosco molti. Non vi domandate mai come si trovano in un luogo diverso da quello in cui sono nati? Io chiedo spesso ai miei amici e conoscenti che si sono trasferiti all’estero, e specificamente qui a St Louis, se gli manca qualcosa in particolare dell’Italia e mi incuriosisce capire il motivo che li ha spinti a crearsi la propria vita in un posto diverso dal bel paese. Non è solo la ricerca del lavoro, o forse almeno non come lo pensiamo noi. Chi decide di cambiare nazione è spinto da un desiderio di crescita e di miglioramento che pensa di non trovare in Italia. Perchè? E cosa realmente trovano una volta arrivati a destinazione? La nuova residenza, diventa davvero casa o resta sempre un legame fortissimo col luogo da cui si è partiti? Ho fatto 3 domande ad alcuni miei contatti. Potevano essercene molte di più. Si poteva dedicare ad ognuno di loro, con le proprie esperienze, un articolo a parte. Ma il mio intento è solo quello di dare voce alla mia prima domanda: cosa gli manca dell’Italia? A me cosa mancherebbe? SILVIA SQUILLACE ![]() 1. Dove vivevi prima di trasferirti e dove vivi ora? Sono nata e cresciuta a Roma, ora vivo a St Louis, Missouri 2. Perché hai scelto di vivere fuori dall’Italia? Durante il Dottorato ho avuto la possibilità di trascorrere un anno presso la Saint Louis University per svolgere un progetto di ricerca in collaborazione con l'università La Sapienza di Roma. Quell'esperienza in qualche modo mi ha cambiato la vita, prima di allora non avevo mai seriamente pensato di vivere all'estero. Quando mi è stato offerto un lavoro da ricercatrice alla SLU non ho esitato un istante. Quindi direi che ho scelto di vivere all'estero per lavoro, ma con il tempo ho imparato anche ad apprezzare la città ed i nuovi ritmi di vita. 3. Cosa ti manca di più dell’Italia? Un luogo, una sensazione… Sicuramente famiglia e amici sono al primo posto. Mi mancano molto anche i nostri piccoli borghi medievali, le feste di paese, quel senso di appartenenza che si rinnova nelle tradizioni regionali. Roma poi è un museo a cielo aperto, l'Italia è così piena di storia e arte, è incredibile come in una striscia di terra così piccola possa esserci una varietà così immensa di panorami, sapori e tradizioni. Tuttavia nel tempo St Louis è diventata per me come una seconda casa e gli amici che ho trovato qui mi fanno sentire in famiglia, e questo è davvero fondamentale per chi come me si trasferisce all'estero. MASSIMILIANO SIMONAZZI ![]() 1. Dove vivevi prima di trasferirti e dove vivi ora? Prima di trasferirmi vivevo in un paese in provincia di Reggio Emilia. Un paesino tranquillo vicino alla città di Reggio e Parma. Adesso vivo a St Louis nelle prossimità della Saint Louis University. Mi trovo molto bene e mi piace molto la location. 2. Perché hai scelto di vivere fuori dall’Italia? La mia scelta di lasciare l’Italia è stata una scelta basata sulle potenzialità del mio futuro. Venire a studiare in America e provare a lavorare in questa nazione è qualcosa di imparagonabile. L’America ti può davvero fornire delle opportunità incredibili, motivo per il quale ho voluto prendere questa opportunità, sfruttare il calcio come risorsa per entrare nelle università Americane e successivamente crearmi una nuova vita qui. 3. Cosa ti manca di più dell’Italia? Un luogo, una sensazione… Sinceramente mi piace molto la mia vita in America e quindi sento molto meno la mancanza dell’Italia. Sono sempre stato abituato a spostamenti già quando ero in Italia, quindi non sono mai stato legato a posti o cose. Diciamo che ovviamente la cosa che mi manca di più è la famiglia e i miei amici più stretti. SARA DI BENEDETTO ![]() 1. Dove vivevi prima di trasferirti e dove vivi ora? Vivevo in Italia, a Marina di Massa, in Toscana, fino a gennaio 2017 quando mi sono trasferita a St Louis, MO insieme a mio marito e alla nostra prima bambina, Lucia, ancora nella mia pancia. 2. Perché hai scelto di vivere fuori dall’Italia? Sono sempre stata curiosa e le mie scelte mosse da uno spirito avventuroso. Ho vissuto in UK per oltre 3 anni durante un'esperienza Erasmus e per il mio master in Plant Molecular Biology. Nel 2016 avevo da poco avviato la mia start up www.coccoon.it in Italia e insieme a mio marito eravamo alla ricerca di un posto nel mondo dove poter inseguire il nostro sogno di espandere il business e crescere i nostri figli bilingui. Ci siamo trasferiti a St Louis, Missouri grazie ad un'ottima proposta di lavoro per mio marito, come Plant Scientist, presso uno dei centri di eccellenza nel mondo nel settore delle Plant Sciences. L'opportunità giusta nel momento giusto: abbiamo impacchettato le nostre vite e con un salto nel vuoto, all'ottavo mese di gravidanza, siamo atterrati in USA. 3. Cosa ti manca di più dell’Italia? Un luogo, una sensazione… St Louis ci ha accolti calorosamente, è una città a misura di famiglia, e avendo partorito entrambi i miei due bambini qui, questo è il mio nido e io qui mi sento a casa. Quello che forse più mi manca dell'Italia sono le piazze presenti nei centri storici di tutte le città italiane (ed europee) e il profumo della macchia mediterranea. MARCO PIGNATELLI & FEDERICA LUCANTONIO ![]() 1. Dove vivevate prima di trasferirvi e dove vivete ora? Roma e Cisterna di Latina e adesso viviamo a St Louis. 2. Perché avete scelto di vivere fuori dall’Italia? Tutto è iniziato con una breve esperienza di lavoro che si è tramutata in una scelta di voler continuare a fare ricerca negli Stati Uniti. 3. Cosa vi manca di più dell’Italia? Un luogo, una sensazione… La famiglia e gli amici. Certo un bell’aperitivo a Campo dei fiori non guasterebbe ogni tanto. ANDREA SPADAFORA ![]() 1. Dove vivevi prima di trasferirti e dove vivi ora? Ho vissuto a Salerno, Regione Campania, dalla nascita fino a 26 anni. Dopo aver viaggiato in varie parti del mondo, tra cui Thailandia e Nuova Zelanda, ho deciso poi di trasferirmi nella zona di Baltimore/Washington DC Metro area per lavoro. Ho poi vissuto cinque anni a Fort Collins, Colorado e adesso sto per trasferirmi permanentemente a St Louis. 2. Perché hai scelto di vivere fuori dall’Italia? Sicuramente per cercare e ottenere migliori opportunità lavorative, ottimizzare la comunicazione in Inglese che è essenziale in tutti i contesti sociali, ma soprattutto per soddisfare il mio naturale spirito avventuriero. Devo dire che questa scelta è costata sia a me che la mia famiglia tanti sacrifici e so che c'è ancora tanto lavoro da fare per concretizzare i nostri sforzi. 3. Cosa ti manca di più dell’Italia? Un luogo, una sensazione… Più di tutto mi manca la possibilità di sentire nel quotidiano i diversi accenti regionali (i miei preferiti sono il dialetto fiorentino e quello romanesco) e poi il nostro modo unico di esprimere calore umano tra le persone. Mi manca anche il nostro particolare senso dello humor che molto spesso è intraducibile da queste parti (non importa quanto si possa studiare una lingua). Penso che i luoghi, il cibo, il mare, la musica, l'arte e i monumenti, siano importanti, ma ciò che rimane più impresso nelle nostre menti sono le emozioni che si creano nei rapporti tra le persone. MICHELE BOLDRIN, PhD Professore presso la Washington University di Saint Louis Si sprecano ormai gli scritti tesi a dimostrare che i problemi concreti dell’economia italiana e di altre economie occidentali dipendono da una qualche generale proprietà del sistema “capitalista” e, in particolare, dagli errori analitici di una supposta “teoria economica dominante” che di questo sistema sarebbe, al contempo, apologeta e creatrice.
L’articolo pubblicato su Econopoly e firmato da Riccardo D’Orsi qualche settimana addietro, costituisce un caso esemplare di tale diffusa teoria che alimenta, in buona parte della sinistra italiana, fantasie tanto antiche quanto dannose. Secondo l’autore dell’articolo esiste un corpus teorico dominante che (a) ha determinato le politiche economiche degli ultimi anni e, (b) si fonda su una serie di falsi assiomi, i seguenti. 1. L’economia di mercato tende spontaneamente alla piena occupazione dei fattori produttivi (capitale e lavoro). 2. Data la relazione inversa tra salari e occupazione, flessibilizzando il mercato del lavoro si ottiene più alta occupazione, più alta competitività internazionale e maggiore attrattività del mercato interno. 3. Sindacati e istituti regolatori rappresentano una distorsione di meccanismi altrimenti efficienti. 4. La domanda aggregata non ha alcun ruolo nel determinare l’andamento di lungo periodo della produttività, la quale viene determinata dal lato dell’offerta. Dalla messa in pratica di politiche basate su presupposti falsi ed argomenti logici erronei come i precedenti conseguono tutti, o quasi, i guai economico-sociali che ci affliggono. Vi sono qui tre aspetti che vanno considerati, anzi quattro. (i) In che senso le affermazioni precedenti definiscono la struttura portante della teoria economica “dominante”? (ii) In che maniera tali assiomi informano le politiche economiche adottate in Italia ed in Europa durante gli ultimi, diciamo 10-50 anni? (iii) Che relazione esiste fra le politiche economiche effettivamente adottate ed i fattori critici reali che l’autore dell’articolo attribuisce all’applicazione politica degli assiomi 1-4? Il quarto aspetto (che non tratteremo ma a cui sarebbe interessante poter dedicare una riflessione più ampia) riguarda la supposta relazione fra questo “sistema capitalista” – che non viene mai definito ma muta sempre – e la supposta “teoria economica dominante” che discenderebbe dalle quattro scemenze elencate sopra. Il pattern argomentativo è un po’ sempre lo stesso ed inizia dalla produttività. Secondo l’autore dell’articolo essa in Italia ha smesso di crescere negli anni ’90 a causa del consolidamento fiscale che fece seguito alla crisi finanziaria del 1992 e da lì non ha più potuto riprendersi a causa della continua austerità che ha bloccato la spesa pubblica. Prima di venire alla fantasiosa teoria, guardiamo i fatti. Iniziamo con due misure degli indici di produttività italiani. Tante cose si possono apprendere da questi grafici ma non che la crescita della produttività si sia arrestata negli anni ‘90. Si era fermata almeno 10-15 anni prima, in piena esplosione del debito pubblico, quella stessa esplosione che causò la crisi finanziaria del 1992. Che la TFP misurata in PPP arresti la propria crescita nel 1980 e da allora cada continuamente mette anche fine alla comica idea secondo cui svalutando si inducano guadagni di produttività aggregati. Nota per i lettori maggiormente curiosi: quest’ultima invenzione costituisce un pilastro portante della strana teoria che gli autori dell’articolo cercano di sostenere. Gli anni ‘80 del secolo scorso furono puntellati da continue “svalutazioni competitive” volute dai governi CAF, i cui risultati (assieme a quelli dell’espansione del debito) sono ora tanto palesi quanto drammatici. Un terzo indice di produttività merita la nostra attenzione prima di passare alla supposta “teoria” sottesa alle affermazioni che i fatti contraddicono. Quello che segue è un indice della produttività oraria reale del lavoro italiano, in media fra i vari settori. Svariate cose saltano agli occhi, su alcune di esse torneremo. Qui ci basta evidenziare che la crescita maggiore degli ultimi 40 anni avviene proprio in coincidenza dell’aggiustamento fiscale (la prima austerità) post 1992 mentre la successiva “bonanza” berlusconian-tremontiana iniziata nel 2001 apre le porte alla prolungata battuta d’arresto che ancora oggi sperimentiamo (1). Veniamo ora alla base teorica degli “eventi” che abbiamo appena provato non essere avvenuti. Il lettore si chiederà che ragioni vi siano per perdere ulteriore tempo, visto che i fatti su cui la supposta teoria si fonda non sussistono. La ragione è presto detta: in un certo mondo che intende definirsi di “sinistra” ed include i responsabili economici di Lega e Fratelli d’Italia (nel Bel Paese tutto oramai è possibile) ci si appiglia a qualsiasi stramberia pur di chiedere maggior debito pubblico. Un vecchio e confuso articolo di Kaldor che utilizzava una (dubbiosa assai) regolarità empirica evidenziata anni prima da Verdoorn sostenne che esistono rendimenti crescenti di scala aggregati. C’era un fondamento teorico per questa affermazione? No: l’analisi storica e teorica oltre che microeconomica, da Joseph Alois Schumpeter in poi, aveva mostrato e continua a mostrare che le innovazioni e solamente le innovazioni generano crescita economica nel lungo periodo. E che, infatti, quello che a Marshall ed altri poteva aver suggerito l’esistenza di rendimenti di scala crescenti in certe industrie (elettriche, acciaio, chimica, trasporti navali, eccetera) altro non era che il rapido cambiamento tecnologico che avevano sperimentato. Verdoorn usa dei dati, piuttosto poveri e mal assortiti, per stimare una relazione statistica fra variazioni del PIL e della produttività del lavoro. La relazione ovviamente esiste, visto che una enorme letteratura empirica su dati di tutto il mondo dice che il reddito per capita cresce solo quando la produttività lo fa. Kaldor usò questo fatto per cercare di estrarne una causalità inversa. Se aumenta la domanda (esogenamente, per spesa pubblica) allora aumenta anche la produttività perché i rendimenti aggregati di scale sono crescenti. Evidenza a sostegno? Nessuna, ma se ignori il cambiamento tecnologico che avviene nel primo mezzo secolo XX (o anche nel secondo) e fai finta che la tecnologia del 1966 (anno del paper di Kaldor) sia la stessa del 1911 (anno del libro di JAS) allora puoi anche sognare che se voghiamo a milioni su migliaia di barconi diventiamo veloci come un Airbus 380. A Kaldor (che era un Lord molto di sinistra) interessava raccontare che il Regno Unito aveva bisogno di maggior spesa pubblica per uscire dall’incipiente stagnazione da cui le opposte politiche di un’antipatica signora lo fecero invece uscire circa un decennio dopo. L’argomento di Kaldor – da allora trattato come un dogma da chi pensa che un debito pubblico crescente garantisca sia il socialismo che la felicità – venne ulteriormente specializzato dal medesimo e da tal Thirlwall in un’altra legge secondo cui la crescita di un paese dipende essenzialmente dalla sua bilancia dei pagamenti. Se esporti tanto ed importi poco cresci, altrimenti no; Bagnai’s economics, insomma. Da svariati decenni la “legge di Bagnai” viene banalmente falsificata dagli USA, da UK, dalla Cina, dal Giappone e… dall’Italia fra gli altrimolti paesi, ma fa nulla (2). Quella stessa “legge”, per mano del CEPAL ed altre fantasiose scuole di economia alternativa, va distruggendo, da circa 70 anni, i sistemi economici dei paesi dell’America Latina i quali, perseguendo “export-led growth & import-substitution”, rimangono in una povertà, sia relativa che assoluta, apparentemente senza fine. Questa fantasiosa teoria della “crescita tirata dal debito pubblico e dalla svalutazione” non dedica attenzione alcuna alle competenze tecniche della popolazione, alle tasse e alla burocrazia che scoraggiano qualsiasi tipo di attività. Ugualmente, nessuna parola viene spesa sugli investimenti diretti esteri che portano know how e tecnologia o sul creare un tessuto fertile per gli investimenti interni. Si rifletta, per un breve momento, solo su questo dato: prima della pandemia le imprese a controllo estero rappresentavano lo 0,3% del totale, garantendo l’8% degli occupati (1,4 milioni di addetti), generando il 15% del valore aggiunto totale e il 22,4% della spesa in ricerca e sviluppo nel nostro paese. Gli investimenti diretti esteri, nel periodo 2013-2018, ammontano a meno della metà di quelli diretti verso la Spagna e ci collocano all’ultimo posto delle principali economie europee. Ma veniamo agli assiomi erronei. Che essi siano gli assiomi di una qualche teoria economica esistente i nostri non lo provano, per la semplice ragione che non potrebbero. Ecco brevemente il perché. 1. Se mai fosse esistita in passato, l’economia “di libero mercato” oggi non esiste di certo. Quali possano essere le proprietà di un sistema economico privo di alcuna forma statale lo discuteremo se e quando dovesse mai profilarsi. Nei sistemi economici oggi esistenti sulla terra lo “stato”, nelle sue mille articolazioni, interviene in modo dominante. In Italia, per esempio, il sistema politico controlla tra i 2⁄3 ed i 3⁄4 del PIL annuale. Se si intende parlare di politiche economiche in Italia oggi, di questo paese reale occorre parlare. Lasciamo le disquisizioni teoriche sui modelli astratti a chi sia in grado di farle con profitto e chiediamoci, con gli autori dell’articolo, “Questo sistema non sembra portare neanche lontanamente alla piena occupazione. Perché?” Sarebbero in grado di spiegarci quali sono le cause? 2. Da nessuna parte alcuno ha mai teorizzato una “flessibilizzazione assoluta” (concetto privo di senso visto che pacta sunt servanda ed i contratti di lavoro pacta sono) del mercato del lavoro. Si è invece discusso delle forti disparità di trattamento fiscale, contributivo e contrattuale fra un settore e l’altro (pubblico vs privato, micro-mini aziende vs medio-grandi), fra gruppi di età (giovani vs anziani, insider vs outsider) e fra aree economiche (trattamenti uguali in condizioni diverse, Nord vs Sud). Ognuno di questi trattamenti differenziali, prodotto di un’incessante e secolare attività legislativa, andrebbero discussi nei loro meriti specifici e l’articolo in questione non lo fa. Inventa una teoria neoliberista del mercato del lavoro assolutamente flessibile che né in Italia né in altri paesi occidentali è mai stata proposta. Che senso ha discutere di un’invenzione? 3. Quando si parla di sindacati si parla di tutti i sindacati, non solo di CGIL-CISL-UIL o, più in generale, dei sindacati dei lavoratori dipendenti. Il ruolo delle organizzazioni di categoria, da Confindustria e Confcommercio alla CGIL, nella gestione del mercato del lavoro italiano è cruciale e va affrontata. Non sono né il male totale né il bene ed il loro ruolo va discusso caso per caso. Non vi è dubbio, come una letteratura enorme ed unanime dimostra, che le eccessive rigidità ed i privilegi introdotti dalle varie organizzazioni di categoria in certi settori dell’economia abbiano costruito un’economia duale che svantaggia in particolare i giovani. E non vi è, simmetricamente, alcun dubbio che in altri settori del sistema economico italiano manchino garanzie contrattuali e salari degni. Se si vuole ragionare su questi temi occorre essere precisi e specifici, non fare vaghe affermazioni ideologiche generali che occultano la realtà dei fatti. 4. Forse gli autori dell’articolo non se ne rendono conto ma, nel lungo periodo, non esiste la “domanda aggregata” indipendente dall’offerta aggregata. Nel lungo periodo esiste solo la capacità di un sistema economico di creare reddito attraverso la produzione di beni e servizi vendibili a prezzi superiori ai costi. E questo determina sia domanda che offerta. L’affermazione secondo cui alimentando la domanda di beni attraverso trasferimenti pubblici determinerebbe la crescita della produttività non è solo contraria, come abbiamo mostrato, ad ogni pezzo di evidenza storica ma è anche e semplicemente vuota sul piano logico. Ovviamente i critici della “economia dominante”, possono sempre provare che i dati da noi riportati sono erronei e che una misurazione corretta delle statistiche economiche italiane mostra che la crescita del debito e della spesa pubblica ha fatto aumentare la produttività quando aumentava, ovvero tra la fine degli anni ‘40 e la fine degli anni ‘70. Buona fortuna. NOTE 1) Nota per i non addetti ai lavori. Mentre la TFP cerca di stimare l’impatto aggregato del cambiamento tecnologico “di per se”, la produttività oraria risponde anche a variazioni nell’ammontare di capitale per lavoratore ed alla crescita dei salari reali nei settori in cui il PIL viene calcolato al “costo dei fattori”, anche in assenza di variazioni della produttivita’ reale (nel settore pubblico in particolare). Questo dovrebbe aiutare a capire per quale ragione la produttività del lavoro inizi a rallentare parecchio dopo lo stop nella crescita della TFP. 2) Telegraficamente: USA cresce con deficit di bilancia dei pagamenti dal 1970, idem UK. Più crescono più negativa è la loro bilancia commerciale, mentre questo non vale per il deficit pubblico. Esattamente l’opposto di Kaldor! In Italia, dal 1990 in poi, la correlazione zero; prima è il contrario. Idem per Cina e Giappone che non cresce dal 1993 o cresce poco ma la cui bilancia commerciale rimane altamente positiva. I dati son facili da trovare in rete. Italian residents in St Louis, Sara and Edoardo di Benedetto, have decided to make their home in Italy available to refugees from Ukraine. While they are offering it for free, additional costs must be paid to help support the family, (utilities, food, clothes, insurance, transportation and more). The Italian Community of St Louis is more than happy to give support for this beautiful initiative.
For more information on this initiative, please click on the following link: Fundraiser by Sara Di Benedetto : Help us to host Ukrainian refugees in our home (gofundme.com) MASSIMILIANO CRISTINA Corrispondente - MLS Soccer Italia Il soccer è da sempre lo sport più amato e praticato nella città di St. Louis, Missouri. Quando il Commissioner della MLS Don Garber ha terminato il tour delle Expansion MLS nella città di St. Louis, Missouri, in buona parte degli Stati Uniti è riecheggiato un metaforico “Oh, finally!”. Il calcio è arrivato nella Soccer City, finalmente a St. Louis c’è una franchigia nella Major League Soccer, era un sogno e un obiettivo degli appassionati in città sin dal 1996, anno della fondazione della lega calcistica nordamericana. L’annuncio di Garber della prossima squadra a St. Louis, che scenderà in campo dal 2023 in un nuovo stadio, è stato vissuto come una sorta di liberazione dagli appassionati di soccer, il lieto fine di un romanzo che per più di venti anni non si era sviluppato come in molti avrebbero voluto; un vuoto riempito dalla città che più di tutte ha contribuito nello scorso secolo a far sviluppare uno sport storicamente chiuso tra baseball, football americano, basket e hockey. La città di St. Louis, nonostante non avesse una squadra nell’élite del soccer nordamericano ormai da decenni, ha una lunga tradizione calcistica fatta di vittorie, imprese storiche e passione per le strade che non ha eguali nel resto del territorio statunitense. Trofei vinti prima ancora che la prima NASL e la MLS potessero essere realmente concepite; trionfi a livello di College; soprattutto un’impronta ben definita nella Nazionale degli Stati Uniti che riuscì nella prima grande impresa calcistica della sua storia: ai Mondiali brasiliani del 1950, gli Usa batterono addirittura l’Inghilterra (1-0), dopo una partita rimasta della leggenda del calcio, non solo americano. Ecco, non solo cinque undicesimi di quella squadra erano originari di St. Louis, ma l’unico media a coprire quell’evento negli Stati Uniti fu proprio il St. Louis Post-Dispatch. Proprio in virtù di una storia così importante, l’esultanza collettiva di St. Louis dopo l’ingresso in MLS ha stupito più che sorpreso solo chi non vive dalle parti del Gateway Arch, la porta sul mitico West della città, costruito paradossalmente dopo che tutti questi trionfi sportivi erano già passati all’archivio della memoria. In una città che è andata avanti in tutti gli sport, seppure tra alti e bassi – in NHL ora ci sono i St Louis Blues, in MLB ci sono i St Louis Cardinals –, il calcio è rimasto a lungo escluso dalle dinamiche cittadine e non solo, quasi snobbato dalla politica, fino ancora al novembre 2018, quando il progetto St. Louis-MLS rischiò il naufragio dopo il rifiuto della città di finanziare, con 60 milioni di dollari di fondi pubblici, parte del nuovo stadio previsto nel progetto presentato alla lega. Il soccer, però, vive e pulsa nelle strade, è parte integrante della comunità, non solo perché ha dominato per decenni – e domina ancora oggi – la scena sportiva a livello amatoriale e collegiale: si stima che a St. Louis ci siano circa 40-50mila bambini iscritti alle varie scuole calcio, organizzate e strutturate – con ricostruzioni certe – fino dal 1880, quando immigrati dalla Gran Bretagna e soprattutto dall’Irlanda trapiantarono il gioco in città, e iniziarono ad allevare i migliori calciatori dello stato. La crescita generale di questo sport nel corso degli ultimi venti anni ha portato città più attrezzate, popolose, ricche e influenti a superare St. Louis in più di una corsa al posto nel professionismo, ma ciò non ha tolto la passione per questo sport ai St. Lousians, Taylor Twellman, nativo di St. Louis, uno degli undici giocatori nella storia della MLS ad aver segnato almeno 100 gol, ha chiarito come questo amore per il gioco sia radicato nella storia della città: "Per come conosco St. Louis, per come l’ha conosciuta mio padre, per come l’hanno conosciuta i miei zii e i miei nonni, il calcio è sempre stato il cuore pulsante di tutto. Credo che STL sorprenderà molti per la passione che porterà sui campi della MLS". Contestualizzata la situazione e ricostruito il background storico, quello che potrebbe a questo punto sembrare un investimento sicuro della MLS in un mercato dove la fame di calcio è evidente, rappresenta anche una scelta con lo sguardo rivolto al futuro, al progresso e alla sostenibilità del progetto. La proprietà della nuova franchigia di St. Louis sarà la prima a maggioranza femminile nella storia della Mls, una novità importante in una nazione e in un periodo storico in cui le donne nel calcio hanno alzato la voce e costruito un dibattito su tantissimi temi. A guidare il club saranno Carolyn Kindle-Betz e altre sei donne della famiglia Taylor, tutte di St. Louis. Si tratterà di un’ulteriore spinta nella rincorsa al titolo di “Soccer City”, oggi messo in discussione da Portland e Seattle, ma rappresenta anche un’immagine di straordinaria normalità nella scelta, una “prima volta” fortemente progressista in un mondo da sempre etichettato come maschilista, ma che in realtà ha trovato terreno fertile e disponibilità da parte della MLS. Sicuramente una proprietà a maggioranza femminile porterà una prospettiva del tutto nuova al tavolo dei presidenti nella lega, coinvolti praticamente in tutte le decisioni delle varie franchigie. Un modo di vedere le cose che dovrà svuotarsi da quelle residue convenzioni o preconcetti che da sempre caratterizzano le proprietà condivise da uomini, con possibilità di vie alternative e futuribili nelle fase decisionali. Una proprietà al femminile è anche una scelta con interessanti sbocchi commerciali: l’appeal della squadra presso il pubblico femminile, già di per sé molto attivo negli Stati Uniti, potrebbe infatti giovarsene. Un altro aspetto per cui la città del Missouri ha battuto la concorrenza di Sacramento per il posto numero 28 in MLS riguarda proprio il coinvolgimento dei Taylor, famiglia locale che ha permesso di evitare fondi pubblici per la costruzione dello stadio, e di assecondare le richieste di Don Garber, sempre attento a preferire imprenditori coinvolti sul proprio territorio piuttosto che facoltosi mecenati pronti a dirigere società da lontano, come sarebbe stato nel caso di Sacramento. Ora per il progetto St. Louis in MLS c’è tempo fino al 2023, e ci sono tante decisioni che i proprietari dovranno prendere nei prossimi mesi. Saranno mesi intensi e complicati, scanditi da un countdown cittadino di attesa, entusiasmo e passione che promette battaglia a piazze bollenti in MLS come Seattle, Portland (che ha inciso la scritta “Soccer City” sui seggiolini del suo stadio, il Providence Park) o Atlanta. Il nome del nuovo club, così come logo e colori sociali, sono stati scelti coinvolgendo la fanbase. St Louis ha ufficialmente un nome, un logo e dei colori sociali: St Louis City Soccer Club o St Louis City SC. Per lo stadio, Centene Stadium, che sarà dunque finanziato privatamente, il progetto è già pronto: capienza da 22.500 posti, possibile espansione fino a 25mila. St. Louis c’è, è pronta a organizzare ed essere the next big thing del calcio a stelle e strisce. Il pallone tornerà a rotolare nella Soccer City, questa volta finalmente ai massimi livelli. E niente sarà più come prima. MARCELLO RABOZZI In Missouri – il Cave State – la US 66 da St. Louis, che sprizza carisma metropolitano, segue crinali e valli offrendo una strada serpeggiante e a curve. Porzioni veramente difficili le valsero il sopranome di “Bloody 66”. Il Missouri mantiene almeno 483 km della storica strada, ed è proprio questo stato che le impose il nome ROUTE 66. Il Missouri è riuscito a conservare una buona dose di memoria dell’autentica Route 66 in una byway contrassegnata da insegne, location storiche, trading post, diner, musei ad attrazioni. Il Missouri é stato il primo stato a erigere le insegne sulla storica US 66. L’allineamento storico si basa sull’originale strada del 1935. La Route 66 nel Missouri eredita il percorso della State HWY 14 del 1922, poi ampliata su quattro corsie nel 1950 per offrire maggiore conforto in tutta la sua lunghezza di 482 km. Oggi non esiste una cartina moderna che mostri l’originale Route 66 a due corsie benché molte sezioni sopravvivano ancora, conservando cimeli storici tramite insegne, motel, attrattive. Il percorso parte da St. Louis e giunge a Joplin. Il viaggio inizia a St. Louis: la città più grande sulle Route 66 tra Chicago e Los Angeles. St. Louis fu fondata sulle rive del Mississippi River nel 1764 e divenne la "Gateway to the West". Lewis e Clark partirono da qui nell’epico viaggio attraverso terre sconosciute verso il Pacifico. Cacciatori di pellicce e mercanti di pelli usarono St. Louis quale avamposto d’approvvigionamento prima di partire alla volta delle Rocky Mountains. I cercatori d’oro lasciarono St. Louis alla ricerca della ricchezza nel West. Immigranti e coloni affrontarono l’immensità delle praterie partendo da St. Louis, tanto che si può ben dire che St.Louis ha messo in moto una nazione e ha segnato la strada per l’ovest a chi cercava una vita migliore. La Route 66 vi giunse nel 1926 e perpetuò la tradizione dei viaggi che aveva preso piede un secolo prima. Il percorso della Route 66 attraverso St. Louis si perde in un dedalo di numerose tracce che si confondono, più che in qualsiasi altro punto della Mother Road. Molti vecchi quartieri che confinavano con la Route 66 non sono più riconoscibili come Route 66 storica, ma nonostante ciò tantissime sono le testimonianze della 66 a St. Louis. Ted Drewes è sulla vecchia cintura della storica Route 66, oggi Interstate 270. TED DREWES FROZEN CUSTARD al 6726 di Chippewa è una sosta da non mancare per gustare il famoso gelato definito “concretes” per la sua solidità, popolare già dal 1941. Ancora oggi la gente transita nelle giornate di sole per gustare una tipicità che accompagnò i viaggiatori sulla Route 66. Anche il DONUT DRIVE INN – restaurato alla sua gloria – è un edificio del 1952 che vendeva donut freschi: il suo neon è uno dei migliori dell’area di St. Louis. Conservato anche l’EAT‐RIDE DINER sulla vecchia Route 66, si trova da oltre settanta anni sull’angolo della 622 Choteau Ave e 7th a sud del downtown cittadino: è una vecchia tradizione della Route 66 a St.Louis. Ha visto tanto “traffico 66” e ancora oggi serve un pasto veloce. Vale la pena curiosare a FOREST PARK, zona storica di St. Louis attraverso la quale si snodava l’originale Route 66. Tra le tante attrattive ospitate nel parco anche il MISSOURI HISTORY MUSEUM ed il SAINT LOUIS ART MUSEUM. Originalmente fu costruito quale primo monumento negli USA a Thomas Jefferson, ma nel 1904 diventa il fulcro dalle World’s Fair.
Appena fuori St.Louis la tappa ad EUREKA vale la visita al Route 66 State Park. Il visitor center è l’ex Bridgehead Inn, risalente al 1935 sull’originale Route 66. Una mostra offre uno sguardo completo sulle Route 66 in Missouri con foto, oggetti, ritagli di giornali. Si possono vedere le splendide architetture degli edifici e delle cittadine che fiancheggiavano la Mother Road dal 1930 al 1960 in Missouri, e i souvenir che un tempo i turisti compravano viaggiando nel Missouri. Per gli appassionati collezionisti ed amanti del turismo, una bella collezione di chiavi di camere di motel è rappresentativa del boom commerciale che la strada 66 offrì ai vacanzieri, con la disponibilità di alloggi lungo il percorso. Notevole è il gift shop per appassionati di Route 66. La location del parco è vicino alla città di St. Louis e offre una fuga nella natura: oltre quaranta esemplari d’avifauna, zone per comodi picnic e sentieri per passeggiate sono distribuiti in tutto il parco. CUBA lungo il Route 66 corridor – conosciuta come Route 66 Mural City – propone arte e sculture in tutta la cittadina: dodici murali del Viva Cuba Mural Project adornano alcuni edifici, ognuno con la sua storia, ed ognuno dipinto da diversi artisti. La città narra le sue vicende storiche – compresa la Guerra Civile – sui muri: il Presidente Harry S. Truman visitò Cuba durante un giro di campagna presidenziale sulla storica strada; anche Bette Davis e la pilota Amelia Earhart visitarono la città in occasioni distinte. I suoi ristoranti sono sempre un "must stop" per i viaggiatori della Route 66, mentre la Crawford County Courthouse locale offre una mostra sulla Route 66 nei tre piani dell’edificio storico del 1938: non tutte le piccole cittadine possono vantare un museo della propria storia quale il Crawford County Historical Society & Museum. Tra gli alloggi autentici il The Wagon Wheel Motel, reperto storico tanto che la sua presenza sulla Route 66 data 1930: a oggi é il motel a gestione più longeva sulla US 66. Il suo ristorante è un negozio di souvenir e la pompa di benzina non è più attiva, ma il Motel continua a offrire alloggio ai viaggiatori dopo settantacinque anni dalla sua apertura. The Wagon Wheel Motel fu tappa turistica famosa ed oggi ‐ grazie all’acquisizione da parte di un residente ed al suo completo restauro ‐ risplende come nel passato con bei bungalow in un grande giardino, dietro a quella che soleva essere una stazione di rifornimento ed un garage. Queste attrattive turistiche fornivano ai viaggiatori sulla Route 66 una serie di servizi tra i quali le riparazioni d' auto, il rifornimento di benzina, spesso la ristorazione con un ristorante ed ovviamente un motel sistemato attorno al parcheggio auto. La segnaletica stradale “Washington” ed “Historic Route 66” segnala un altro reperto vintage sulla Mother Road di Cuba: é la vecchia stazione di servizio Carr Phillips 66 Service Station del 1932, all’angolo tra Washington e Franklin Street. Wallis Companies é la proprietaria che ha restaurato questa vecchia stazione di rifornimento. Il suo quartier generale é proprio di fronte in un edificio moderno colorato. Oggi quest’azienda gestisce una catena di minimarket, tra i più diffusi nel Midwest. Tre murali adornano la vecchia stazione di benzina narrando eventi della vita del proprietario Bill Wallis e della comunità di Cuba grazie alla mano dell’artista Ray Harvey. A quattro miglia ad ovest di Cuba c’è la frazione di FANNING: é la location della sedia a dondolo più grande del mondo della Route 66 entrata nel Guinness dei Primati. La sedia è alta 10 metri ed attira viaggiatori per qualche scatto fotografico; l’attiguo trading post 66 OUTPOST vende ricordi ed é un buon punto di sosta sul percorso. STANTON é invece la sede delle celeberrime Meramec Caverns – grotte sotterrane con stalattiti e stalagmiti che si percorrono a bordo di un veicolo in un tour accompagnato ‐ uno dei nascondigli del famoso fuorilegge nativo del Missouri, Jesse James. Furono aperte commercialmente da Lester Dill negli anni ’30 e vantavano un parcheggio per 300 auto, luce elettrica ed una grande pista da ballo. E’ una delle soste turistiche più famose sulla Route 66. Il bandito Jesse James ne frequentava i sentieri e gli anfratti molto prima che questa strada fosse celebrata come superstrada. Ancora oggi continuano le leggende sul bandito con racconti sui vari nascondigli nelle montagne Ozarks. Tra le attrattive da visitare: The Jesse James Wax Museum e Stanton Toy. Il Missouri vanta sicuramente un numero impressionante di grotte sotterranee, tanto da guadagnarsi il soprannome di Cave State. ROLLA a metà strada tra St. Louis e Springfield ‐ si pronuncia RAW‐LA ‐ iniziò quale avamposto ferroviario nel 1855: qui finiscono le praterie e iniziano le montagne Ozarks. Nei vecchi tempi della Route 66 le Ozarks erano una meta vacanziera per chi fuggiva dalla città. Sulla strada The Hooker Cut ‐ tra Rolla e Waynesville ‐ é un taglio netto nella montagna, profondo 12 metri che consentì il passaggio della storica strada tra le montagne, in un paesaggio di contrasti. A Rolla c’è la sede della Missouri University of Science and Technology, molto conosciuta anche in campo internazionale per le sue facoltà d’ingegneristica e di scienze del computer. E’ anche il quartier generale della Mark Twain National Forest nonché area di viticoltura Ozark Highlands American Viticultural Area, che fu impostata all’origine dagli immigranti Italiani. Rosati Winery Museum ad esempio é la più antica vinicola della Ozark Highlands wine region ed anche una delle più antiche di tutto il Missouri. Che dire poi dei negozi o empori di modernariato sulla Route 66? Il Missouri ne conta parecchi da curiosate e scoprire, poiché catturano per fascino e per le tante cose vecchie: scatole di latta di biscotti o di tabacco, dischi, cassette, radio, elementi elettronici vari, gioielli, vestiti, poster, cartoline, targhe, libri e vecchi giocattoli. Basti citare Totem Pole Antiques Old Trading Post, che aprì nel 1933: é l’esercizio commerciale più antico ed ancora in servizio della Route 66 in Missouri. Offre vero antiquariato e vari ricordi della Route 66 oltre a delicatezze tipicamente locali. E’ gestito da due “veterani” della 66, Jones e Alice che lo dirigono da 30 anni. Uno dei gioielli storici della Route 66 é la comunità di DEVIL’S ELBOW: qui sembra che i decenni si susseguano lontano dal rumore e dal traffico dell’Interstate. Negli anni ‘30 e ‘40 Devil's Elbow era una località di villeggiatura con chalet, canoe ed il famoso Munger Moss Sandwich Shop che fu poi spostato a Lebanon. Lo storico alloggio Elbow Inn risale agli anni ’30, costruito da Nelle & Emmett Moss. E’ un posto per mangiare un ottimo barbecue sul fiume Big Piney River: ancora oggi affumicano la propria carne per il BBQ, luogo pittoresco e curioso, con biliardo, tavoli e sedie ed un fornito bar. Al suo interno dal soffitto pende una vera marea di reggiseni, ricordi e trofei dei viaggiatori. Elbow Inn Bar and BBQ Pit occupa esattamente lo stesso posto dell’originale Monger Moss Sandwich Shop del 1929. All’esterno esistono ancora poster originali d’epoca che promuovono le mitiche moto Indian. E’ certamente un locale da non mancare, raduno di molteplici motociclisti che qui trovano veramente l’autenticità di un luogo storico delle Mother Road. Devil's Elbow Bridge é un antico ponte di ferro in un bosco: fu famoso per essere pericoloso, spesso ostacolo letale sulla Route 66 ai guidatori che si trovavano improvvisamente immersi nelle brume del mattino. Viaggiando verso est ci si trova immersi nel bel paesaggio delle Ozark Mountains con le sue piccole comunità pittoresche: St. Robert, Waynesville, Buckhorn, Laquey ed Hazelgreen, tutte validi esempi delle tappe storiche sulla Route 66. Tra le tante curiosità conservate lungo la US Route 66, una bella fermata dell’ antica diligenza nel cuore di WAYNESVILLE. la Old Stagecoach Stop del 1853; in passato taverna, poi alloggio, fu usata anche come ospedale dalle truppe dell’Unione durante la Guerra Civile. L’Old Courthouse Museum é accanto alla Old Stagecoach Stop. Il Route 66 Candy Shoppe – emporio di caramelle classico all’Americana ‐ si trova invece attorniato da delle serie di attrattive kitch, ma che ricreano efficacemente il divertimento classico d’epoca della Route. Lebanon é una bella cittadina, importante tappa sulla Route 66 con servizi indirizzati ai viaggiatori. Infatti, uno dei primi motel sull’highway fu Camp Joy, che aprì nel 1927 quale accampamento alla tariffa di $0.50 a notte. Più tardi si aggiunsero cottage abbinati a pompe di benzina e negozi di generi alimentari. Oggi ritroviamo il famoso Munger Moss Motel ed il Wrink’s Food Market, vera istituzione per oltre 50 anni. Ai tempi in questo negozio si vendevano panini alla Bologna per 99 cents! Il Munger Moss Motel rimane una vera a propria Vintage Auto Court che richiama ai tempi gloriosi della Route 66! Per generazioni è stata la "home away from home" dei viaggiatori ed ancora oggi offre alloggio con tutti i servizi del caso dei tempi moderni: semplice, pulito e pieno di ricordi. La Neon Heritage Preservation Committee, la Route 66 Association of Missouri ed il National Park Service hanno contribuito a restaurare l’insegna che fu riaccesa nel Novembre 2010. Il Bell Restaurant continua a servire pietanze ai viaggiatori affamati. Lebanon conserva molte memorie storiche della Route, vere e proprie attrattive: una di queste é il nuovo museo nella Laclede county library che oltre ai tanti ricordi e reperti, ha ricreato i veri ambienti tipici degli esercizi commerciali lungo la strada. La stazione di benzina Texaco è esattamente come le originali degli anni '50 e '60. Springfield é la "Queen City of the Ozarks" e si trova nel cuore di queste belle montagne. E’ una cittadina moderna nata sull’Interstate 44. La Route 66 è nata proprio qui il 30 Aprile 1926 quando le autorità cittadine inviarono un telegramma proponendo il nome alla nuova superstrada. La Route 66 Association of Missouri ha denominato Springfield luogo di nascita ufficiale della Route 66 con un’insegna ora posta sul versante orientale della Park Central Square. Oggi Springfield mischia passato e futuro proprio nel punto ove la Route 66 attraversava il suo centro. Una delle prime visite in città è il The Route 66 Information Center per poter collezionare cartine, informazioni e scoprire circuiti da fare. Il momento migliore per celebrare la Mother Road nella Queen City é il Birthplace of Route 66 Festival ad Agosto: la città festeggia la storia della Route 66 con 3 giorni di festival pieni di spettacoli, eventi, competizioni, intrattenimenti e auto in bella mostra sulla sezione delle 66 di Springfield. Il festival offre tante attività e svaghi: la Route 66 Parade ed un mercato con banchi all’aperto, uno show di moto e di auto, una gara di moto e due serate di concerti al Gillioz Theatre, cinema al drive‐in una maratona ed un chiacchierata di autori, artisti, collezionisti e associazioni della Route 66 al The Old Glass Place, 501 E. St. Louis St., dove gli aficionado della Route 66 mettono in vendita vari prodotti. Un buon boccone, rimanendo in tema, si gusta nel cuore di Springfield da Tubby’s Diner: colazioni, pranzi e cene in un’ambientazione, giusto scenario alla storica strada. E’ sempre aperto, tutti i giorni dalle 7 del mattino alle 8 di sera. Un altro classico assoluto è Steak 'n Shake che fa parte della tradizione di Springfield da 50 anni ed è ancora in voga: é un diner con servizio anche in auto, risalente al 1962; l’unico rimasto di questa catena di ristorazione in franchising ed anche l’unico ancora con servizio ai clienti seduti in auto! Sulla piazza centrale si trova il teatro Gillioz Theatre in stile Spanish Colonial Revival del 1926, perfettamente restaurato e riaperto nel 2006. Qui lo spettacolo con musica è assicurato. Mentre nella storica piazza centrale di Springfield si trova l’History Museum on The Square, che include lo storico edificio Berth ed il Fox Theatre con una varietà di esposizioni ed informazioni su tutto quanto c’è da sapere su Springfield. Per il 2016 l‘History Museum On The Square inaugura completamente rinnovato con una sezione intera dedicata alla Route 66. Per dormire si sceglie un alloggio che riporti proprio alle atmosfere storiche della 66: da 75 anni il Best Western Route 66 Rail Haven ha dato il benvenuto a ospiti di tutti i paesi del mondo. L’hotel è nel National List of Historic Places. Non si può mancare quest’esperienza: qui Elvis Presley dormì nella camera 409. Le vecchie pompe di benzina con l’insegna Sinclair sono ancora una delle attrazioni di maggior fascino. Springfield sulla Route 66, ne conserva ancora una presso la quale sostare per immergersi nella memoria storica del viaggio sulla Mother Road. Gli appassionati di vintage devono raggiungere la piccola cittadina di HALLTOWN a soli 14 km. ad ovest di Springfield: é un vero Tesoro di aneddoti e di antichità della Route 66. Piccola, quasi addormentata, Halltown cattura per il suo fascino che la rende un classico del Missouri. Molto forte la presenza della chiesa nella vita quotidiana: tante, infatti, le parrocchie che si alternano a vecchi edifici decadenti e nuovi, moderni ed immacolati. Chi ama il modernariato curiosa da Whitehall Mercantile, che occupa due piani di un edificio sulla storica Route 66 – "Mainstreet USA." Costruito nel 1900, all’origine era un general store con un ufficio postale a pianterreno. La 66 aiutò la trasformazione di Halltown nel diventare "the antique capital of the world". Era una cittadina di 190 abitanti con ben sette negozi di antiquariato, ognuno specializzato in qualcosa di diverso: dalle bambole alle lampade. La cittadina ha sempre avuto un forte carattere. Per trovare un drive inn di tutto rispetto si va a CARTHAGE che dista solo 93 km. da Springfield: il Drive In Theatre è in assoluto il più bello e meglio restaurato di tutta la Route 66. Risale al 1940 ed è stato riaperto nel 1998. Vi si proiettano film ogni venerdì, sabato e domenica sera. Fu uno dei nove drive in che esistevano sulla Route 66 e fu costruito dagli imprenditori William D. Bradford e V. F. Naramore nel 1949 e fece parte di un boom del periodo, dopo la Guerra mondiale. La Route 66 scorre attraverso Carthage a circa un isolato dalla Town Square. Lungo il suo percorso sorge il famoso Boots Motel, un classico esempio di Streamline Modern Architecture, uno degli ultimi rimasti sulla Route 66. Arthur Boots costruì il Boots Motel nel 1939 "At the Crossroads of America." All’epoca fu veramente un albergo moderno con tanto di radio in ogni camera, docce piastrellate, pavimento riscaldato con termostato, aria condizionata e garage. Si dice che anche Clark Gable vi abbia soggiornato. Il "Motel" fu salvato dalla demolizione grazie alla passione di due sorelle che l’hanno restaurato com’era all’origine nel 1949, con cinque camere completate e disponibili dal 2012. Tutte le camere ad oggi disponibili forniscono letti doppi; non c’è la televisione poiché Carthage non l’aveva fino al 1953, quindi Boots non la offre ma in compenso in ogni camera c’é la radio, così com’era pubblicizzato negli anni ’40. Internet gratuito e praticamente invisibile in queste abitazioni decorate in stile anni ’40. Alcuni servizi moderni quali ad esempio il dispensatore di sapone nei bagni, sono temporanei in attesa di poter trovare elementi in stile d’epoca. Si può parcheggiare l’auto proprio davanti alla camera come si faceva ai tempi ed il parcheggio é abbastanza ampio da consentire posto anche a camper. E’ veramente un’ “esperienza66” poter soggiornare in un autentico edificio Art Deco‐Streamline Modern, che attualmente Trip Advisor segnala quale "Best Motel in Carthage"! L’ultima tratta della storica Route 66 nel Missouri conduce a JOPLIN, prima del confine con lo stato del Kansas: dislocate all’incrocio tra le Interstates 44 & 49 e la Route 66. La cittadina lega il suo nome a Bonnie e Clide che nel 1933 vi stracorsero ‐ nascosti in un appartamento ‐ alcune settimane, lasciando ovviamente cadaveri durante la fuga. La Missouri Advisory Council on Historic Preservation ha nominato la casa ove la coppia soggiornò al 34th Street e Oak Ridge Drive per entrare nel National Register of Historic Places, per il significato storico ed architettonico. Numerosi edifici di Joplin sono già inseriti in questa lista soprattutto le belle residenze Vittoriane del Murphysburg Historic Residential District e, recentemente la città ha intrapreso progetti di restauro sulla Main Street, quartiere del downtown che si trova sulla Route 66 rinnovando facciate, marciapiedi, aggiungendo lampioni in stile e panchine. Un trolley compie il tour della cittadina evocandone il passato. La storica strada portò a Joplin traffico, commercio e notorietà tanto che Bobby Troupe scrisse la canzone “Route 66” e scelse di citare citare Joplin in un verso. Oggi al City Hall si trovano tre murali: Joplin at the Turn of the Century, Evolution of a Mural, Route 66 attraverso i quali si ottiene un assaggio anche sull’artista Thomas Hart Benton e su come suo nipote Anthony Benton Gude abbia interpretato la città nel 20° secolo. Nel 2014 è stato inaugurato il Route 66 Mural Park, parco accanto alle strade Seventh e Main — ove si allineano due corsie della Route 66 – che mostra una mezza porzione di una Corvette del 1964 incastonata nel muro. Il murale include due dipinti dedicati alla Route 66: “Cruisin’ into Joplin” e “The American Ribbon”. Tra la 7th Street e la Schifferdecker Avenue, si trova un pezzo originale delle Route 66 del Missouri, quella che univa l’Oklahoma ed il Kansas a Joplin e divenne l’America’s Main Street. Se si va in direzione Route 66 ad est di Joplin si nota che la strada attraversa alcuni quartieri storici tranquilli. In uno di questi c’è ancora una stazione di benzina in stile originale Phillip’s Cottage Style: uno sguardo indietro nel passato quando questa strada ora tranquilla, era un movimento continuo di una nazione in spostamento! Olimpiadi, il mistero di Frank Bizzoni: Olimpiadi di St. Louis 1904 da italiano o americano?2/1/2022 GIANMARIO BONZI Giornalista e Telecronista presso Eurosport Italia Non si finirà probabilmente mai di scoprire nuovi partecipanti, nuovi risultati e magari anche nuove medaglie relative all’edizione dei Giochi di Parigi 1900 e, soprattutto St Louis 1904. I Giochi più disastrati della storia, che portarono quasi al collasso la creatura voluta da Pierre de Coubertin, a causa soprattutto dell'inserimento della manifestazione all’interno dell'Expo, in un caso in Francia, nell'altro negli Stati Uniti. Più che Giochi, sagre da strapaese, con mille gare che nulla avevano e hanno a che vedere con lo sport. Per fortuna le Olimpiadi sono riuscite a sopravvivere a tali strazi.
La terza edizione si svolge a Saint Louis, negli Stati Uniti, nel 1904. È un edizione “povera”, soprattutto a causa delle difficoltà nel raggiungere la città nel cuore degli Usa; la partecipazione è decisamente bassa. Solo dodici le Nazioni in lizza, mentre gli americani, presenti in gran numero, vincono 77 delle 95 medaglie d’oro (è la prima volta che vengono assegnate le medaglie d’oro, d’argento e di bronzo per i primi tre classificati). L'Italia non partecipa a quella rassegna, non si è in grado di sostenere le ingenti spese. Ecco però che un italiano, un lodigiano, ha la ventura di misurarsi in quell’agone a dir poco piuttosto "strano", ma è stato riconosciuto solo pochi anni fa. Francesco Filippo Bizzoni era nato a Lodi nel 1875. Il cognome esiste nel Lodigiano, ma al di là dei documenti dell'anagrafe che provano la sua nascita, non si trovano altri riferimenti. Nel 1898 il giovane emigra in Inghilterra, dove, a Bournemouth, lavora quale cameriere. È il periodo in cui l’emigrazione italiana è indirizzata verso diversi Paesi, la situazione, spesso di miseria induce a cercare fortuna altrove. Nel 1903 Bizzoni attraversa l’Atlantico e si reca a New York. Il suo "inglese" dev’essere "passabile" e così trova lavoro quale autista e cameriere al New York Club. Da allora il suo nome diventa Frank. Ha la passione per la bicicletta, si cimenta in gare e mostra di saperci fare nello sprint. Decide di andare a Saint Louis. È probabile che qualche persona caritatevole lo abbia aiutato nel sostenere il viaggio e poi il soggiorno. Le gare si richiamano a un autentico pionierismo che non ha riscontro con l'oggi. Queste le distanze: un quarto di miglio, un terzo, mezzo miglio e così via fino alla tirata più lunga di 25 miglia. Bizzoni partecipa alla gara più breve, supera il primo turno, ma in semifinale è battuto dall’americano Billington. Frank, finita così la sua avventura olimpica, torna a New York dove continua a gareggiare ottenendo qualche successo. Non si sa nemmeno se riesce a costruirsi una famiglia. Gli organizzatori dell'Olimpiade lo avevano iscritto quale "americano", ritenendolo uno dei loro. Si apprende invece da un censimento dell’epoca che nel 1917, quando si arruola nella Us Army e partecipa alla prima Guerra Mondiale, è ancora cittadino italiano. Si sa che riesce a cavarsela senza danni, torna a New York, nel Bronx, dove muore nel 1926. Dopo la sua morte, fu organizzata la "Francesco Bizzoni Memorial Race", una competizione che si svolse per un certo numero di anni: Lodi – Bournemouth – New York – Saint Louis, questo il lungo percorso di Francesco Filippo Bizzoni che volle onorare lo sport tramandato dalla mitica Olimpia. |
AuthorsGiovanna Leopardi Year
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